Ieri, 19 luglio, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha dato un'interpretazione morbida del muslim ban, il bando emanato dal Presidente Donald Trump contro i cittadini di 6 paesi di religione musulmana, che tante polemiche ha suscitato a livello nazionale e internazionale. Secondo i supremi giudici la legge è applicabile, ma devono essere studiate delle ampie deroghe per i parenti di religione islamica dei residenti negli Stati Uniti naturalizzati americani. La decisione della Corte ribalta l'interpretazione più restrittiva che aveva dato l'amministrazione Trump, e che si basava su una precedente sentenza della stessa Corte Suprema, emessa solo lo scorso mese di giugno.

Le motivazioni della sentenza

Fondamentalmente, la decisione dell'alta corte federale statunitense si suddivide in due parti. Nella prima parte i giudici affermano di non voler interferire con la decisione del Tribunale di grado inferiore che ha ampliato la definizione di stretti legami familiari. Nella seconda però, hanno accolto la richiesta dell'amministrazione Trump di temporeggiare per quanto riguarda la revoca del divieto per i rifugiati, contingenza che avrebbe consentito loro un più facile accesso nel Paese. In particolare, ad accogliere le richieste dei collaboratori del presidente degli Stati Uniti sono stati i giudici Clarence Thomas, Samuel A. Alito Jr. e Neil M. Gorsuch. La maggioranza della Corte, invece, ha ribadito che il ricorso del governo federale contro la decisione del Tribunale inferiore deve seguire i normali canali istituzionali.

Lo scontro sul Muslim Ban prosegue

Nonostante questa parziale apertura da parte della Corte Suprema americana, lo scontro politico tra i sostenitori del bando e i suoi detrattori continua. L'amministrazione federale l'ha definito una misura necessaria per garantire la sicurezza del Paese. Per contro, l'opposizione ritiene che sia un provvedimento del tutto incostituzionale.

L'ultima versione della legge non consente di entrare negli Stati Uniti ai cittadini dello Yemen, dell'Iran, del Sudan, della Siria, della Somalia e della Libia. Mentre, come ricordavamo poco sopra, la disapplicazione del bando ai rifugiati era rimasta in stand-by.

Il 26 giugno la Corte Suprema aveva dichiarato che avrebbe esaminato la questione in autunno.

Ma nel frattempo ha proposto una soluzione di compromesso. Il Muslim Ban rimarrebbe applicabile per quei cittadini che non hanno nessun tipo di collegamento con gli Stati Uniti, mentre coloro che godono di una buona reputazione e hanno dei parenti residenti negli stati della federazione americana devono esserne esentati.

I giudici non hanno voluto dare una definizione giuridica del tipo di relazione che esenterebbe dall'applicazione della normativa, ma hanno fatto degli esempi tra cui, come dicevamo, un parente residente nel paese, un contratto di lavoro o ancora l'iscrizione ad un'università americana. I tre giudici che erano favorevoli all'entrata in vigore del bando senza cambiamenti avevano previsto che sarebbero nati dei contenziosi e, in effetti, così è stato.

Coloro che si oppongono al Muslim Ban fanno riferimento alla sentenza emessa dal giudice distrettuale Derrick K. Watson delle Hawaii, secondo il quale la "lista delle esenzioni" predisposta dall'amministrazione Trump non ha il sostegno né della Corte Suprema né della legge. In particolare, il giudice cita l'esempio dei nonni, sostenendo che sia il buon senso a suggerire che costoro siano, per antonomasia, i parenti più prossimi. Nonostante ciò, anche loro sono esclusi dalla definizione fornita dal governo, e questo non può accadere.

La reazione dell'amministrazione Trump

Da parte sua, il Dipartimento di Giustizia americano ha sollecitato la Corte Suprema a ridimensionare la sentenza del giudice Watson.

Infatti, per l'amministrazione americana, l'interpretazione del giudice è eccessivamente ampia, arrivando ad includere praticamente tutti i parenti e anche qualunque tipo di rifugiato. Lo Stato delle Hawaii, da parte sua, ha invitato i giudici a considerare le argomentazioni del governo un "non senso".