La luce della speranza si è accesa il 2 settembre del 2014 in un centro clinico di Bethesda (Stati Uniti). Una donna di età pari a 39 anni ha infatti ricevuto la prima dose del vaccino contro il temutissimo virus Ebola: con lei altri 19 volontari, uomini e donne tra i 18 anni e i 50 anni di età riceveranno la fiala di medicinale. Altri test stanno prendendo il via in Gran Bretagna, in Gambia e nel Mali: in tutto sono 140 volontari. Nel frattempo si inizieranno a produrre le prime 10 mila dosi di vaccino, se i risultati della sperimentazione come si spera saranno positivi (cioè si i volontari svilupperanno gli anticorpi contro il virus e non ci saranno pericolosi effetti collaterali), verranno distribuite all'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che potrà iniziare una prima campagna di vaccinazione contro il virus che da marzo ha già ucciso 1500 persone in Africa Occidentale.

Nonostante le previsioni dell'Oms, secondo cui nei prossimi sei mesi Ebola potrebbe colpire oltre 20 mila persone, adesso il virus non fa più così paura.

Pochi però sanno che la ricerca per sconfiggere Ebola è tutta italiana. Il vaccino, per essere precisi la tecnologia che permette di crearlo, è nata in un anonimo edificio alle spalle del Politecnico di Napoli. E la storia di questa ricerca assomiglia molto a quella del garage di Steve Jobs, dove nacque il primo computer Apple. Protagonisti sono quattro ricercatori: Riccardo Cortese, Stefano Colloca, Antonella Folgori e Alfredo Nicosia. Lavorano ad un nuovo modo di fare i vaccini negli stabilimenti di Pomezia (Roma) della Merck, la società farmaceutica e chimica più antica del mondo (fu fondata infatti in Germania nel lontano 1668).

I sacrifici non mancano, ammette Virginia Ammendola, 36 anni di età, che lavora alla Merck di Pomezia. Con lei c'era anche Morena D'Alise, 34 anni, tornata a Napoli, racconta. I sacrifici sono ripagati da tante soddisfazioni. E' il vaccino che potrà salvare il mondo dall'Ebola? Lo sperano tutti, proprio tutti.