L'elaborazione del lutto è parte integrante della vita di ciascuno di noi, quindi risulta controproducente patologizzarlo o, al contrario, ricercare la scappatoia più immediata per sfuggirvi. Si tratta, infatti, di un processo biologico e fisiologico che proprio per tale definizione deve essere lasciato libero di crearsi da sé, e altrettanto liberamente deve essere vissuto appieno. Le complicazioni si palesano quando, trascorso il tempo ritenuto anch’esso fisiologico nel lasciar andare una persona (approssimativamente 12 mesi), la persona interessata denuncia malessere e tendenze depressive che si rivelano ancora irrisolte.
Cosa dice Freud
Il saggio Lutto e Melanconia di Freud costituisce un eccezionale documento per lucidità argomentativa proprio intorno alla tematica del lutto. In questo scritto il lutto viene presentato come “la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, la libertà, o un ideale, che vede come conseguenze un doloroso stato d’animo, la perdita di interesse per il mondo circostante, la perdita di provare coinvolgimento per altre relazioni umane, l’avversione e l’evitamento di impegni che non si pongano in rapporto con la sua memoria”. Il padre della Psicoanalisi spiega come per elaborare il lutto debba effettuarsi uno spostamento libidico verso un oggetto altro da quello perduto, operando una vera e propria ricollocazione affettiva.
L’uomo, tuttavia, per natura sembra portato a mantenere ancorata per più tempo possibile la sua libido su una posizione abituale, dunque il lavoro del lutto richiede tempistiche lunghe e degli step obbligati da affrontare come, ad esempio, l’investimento altrove di ricordi e aspettative connesse con l’oggetto perso. Solo così, Freud dice, “l’Io ridiventa libero e disinibito”.
Le fasi del lutto
La più celebre formulazione di questa teoria spetta a Kubler Ross, che con il suo studio nel 1970 giunse a definire cinque passaggi obbligati: negazione, rabbia, patteggiamento, depressione, accettazione. Questa formulazione si è rivelata ben aderente al vissuto di chi stia sperimentando una perdita.
John Bowlby, autore di una magistrale storia della psicologia, propose fasi distinte da Ross, ma anch’esse vissute in una sequenza necessaria: protesta, nostalgia, disperazione, riorganizzazione.
La psichiatria odierna ha aggiunto al DSMV, il manuale nosografico per chi esercita la professione, la voce “lutto persistente”, ponendo in evidenza il fatto che i sintomi più acuti in queste circostanze si protraggano per un tempo eccessivo, causando addirittura sentimenti di identificazione con la persona perduta da parte di chi patisce, quasi a volerne imitare la sorte. In questi casi il rischio è di trasformare il malessere in una patologia cronica con ulteriori complicazioni depressive e post-traumatiche, con conseguenze brutalmente invalidanti per l’autonomia di una persona, non in grado di tornare a quella libertà di cui parlava Freud.
In generale, non esistono strade brevi, né farmaci utili; esiste solo il rispetto delle proprie personali tempistiche umane.