Il NAFLD (non-alcoholic fatty liver disease) è una patologia epatica cronica, molto frequente nei Paesi industrializzati. In alcuni casi più raggiungere il livello di NASH (non-alcoholic steatohepatitis). Un team di ricercatori internazionali ha svolto una ricerca clinica finalizzata all’individuazione di marcatori – “sostanze chimiche specifiche presenti nel sangue” - in grado di avere in un giorno una diagnosi di NAFLD. Ed essere in grado quindi di associare i livelli ematici di questi marcatori ai microorganismi intestinali (microbiota). Lo studio si chiama FLORINASH.
Un marcatore facilmente misurabile nel sangue
Lo studio internazionale FLORINASH ha individuato che i livelli ematici di acido fenilacetico (PAA) possono essere associati ai primi stadi clinici della NAFLD. Di cosa si tratta? Il PAA è una sostanza, un biomarcatore, prodotta dal microbiota intestinale, che aumenta in soggetti affetti da obesità patologica e fegato grasso (steatosi). Oltre che nel sangue, questa sostanza è rilevabile in vari campioni biologici come urine, feci e nelle biopsie epatiche.
I ricercatori hanno osservato un allineamento/appiattimento crescente del macrobiota intestinale con una condizione avanzata di steatosi epatica. In altri termini, tanto più è avanzato lo stadio della malattia tanto meno i batteri sono diversificati da un paziente all’altro.
Questa osservazione non è certamente inedita, altri studi ne avevano già descritto il fenomeno. Questa forma di “collasso” nella diversità genica dei batteri intestinali è un indice di una compromessa capacità di rispondere agli stimoli esterni e quindi ad una limitata capacità di produrre sostanza benefiche a favore di sostanze tossiche che poi portano all’insorgenza di varie patologie.
La controprova che il PAA sia responsabile della steatosi epatica si è avuta in studi di laboratorio. Somministrando questo biomarcatore ad animali di laboratorio, in buona Salute (topi), in oltre il 75% degli animali trattati si è osservato un accumulo di grasso nel fegato (steatosi). Allo stesso risultato si arrivava se invece del PAA agli animali si praticava un trapianto fecale, con feci derivanti da pazienti affetti da steatosi epatica.
Il PAA potrebbe non essere l’unico responsabile di questo fenomeno, dato che un microbiota di questo tipo genera oltre 200 sostanze che poi vengono liberate nel sangue, ma il PAA è sicuramente una di queste sostanze dove questa correlazione è stata dimostrata. La ricerca è stata condotta da ricercatori dell’Imperial College di Londra, dell’Università Tor Vergata di Roma e dell’Università di Girona e l’INSERM di Tolosa. I risultati sono stati pubblicati il 25 giugno su Nature Medicine, prima firma Lesley Hoyles.
Il NAFLD, una pandemia silente
Il NAFLD (non-alcoholic fatty liver disease) è una patologia epatica cronica che può evolvere fino a cirrosi, insufficienza epatica e cancro. È molto frequente nei Paesi industrializzati e si stima che con l’aumento dell'obesità nella popolazione, un adulto su tre potrebbe essere affetto da una condizione iniziale e silente di NAFLD.
Questa condizione, se non si interviene subito, può raggiungere il livello di NASH (non-alcoholic steatohepatitis). Al momento non esistono test clinici in grado di diagnosticare in uno stadio precoce la presenza di NAFLD.
Sempre in questi giorni è stato pubblicato un secondo lavoro, ancora su Nature Medicine, primo autore Ludivine Laurans, della Université Paris-Descartes, sul rapporto tra un enzima, la indoleamina 2,3-diossigenasi, e l’obesità. Questo enzima è indotto in molti tipi di cellule immunitarie, compresi i macrofagi in risposta a stimoli infiammatori, e catalizza la degradazione del triptofano – un importante amminoacido costituente le nostre proteine nonché artefice della produzione di importanti trasmettitori cellulari.
Nei soggetti obesi il triptofano invece di seguire la via della sintesi delle proteine segue un'altra via, che porta alla produzione di chinurenina, un altro biomarcatore, con effetti negativi sulla tolleranza al glucosio. Da qui la relazione tra steatosi epatica – o le forme più gravi come fibrosi, cirrosi, insufficienza epatica e cancro – e diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari.
Il messaggio che questi due lavori ci lasciano è che le più recenti conoscenze scientifiche portano a considerare il microbiota intestinale come un elemento fondamentale del nostro Benessere. Se questo è in perfetto equilibrio non abbiamo nulla da temere ma se è alterato, produce sostanze dannose che possono portare all’insorgenza di patologie anche molto gravi.