Nella storia dell’atletica leggera c’è un caso celebre. Dorando Pietri perse la maratona ai Giochi Olimpici di Londra nel 1908, dopo averla dominata. Stremato dalla fatica, crollò ad un paio di km dal traguardo e tutti i suoi tentativi di concludere la gara furono vani: gli sbiaditi fotogrammi di quella maratona regalano anche ai giorni nostri emozioni infinite. Ad ogni modo la sconfitta gli diede gloria imperitura e, di contro, nessuno si ricorda del vincitore effettivo, lo statunitense Johnny Hayes. Lo sport è fatto di uomini e sono costoro a scrivere le pagine di una storia infinita, con le vittorie, ma anche con le sconfitte.

Il caso di Pietri restò impresso ed indelebile per la drammaticità delle circostanze, ma ci sono battute d’arresto che diventano storiche per altri motivi, quando a perdere sono squadre o atleti considerati invincibili. Basti pensare all’Ungheria che cede in finale alla meno dotata Germania ai Mondiali di calcio nel 1954, o a Mike Tyson che perde il titolo mondiale dei pesi massimi al cospetto del carneade James Buster Douglas nel 1990. Sconfitte che danno una dimensione diversa alla leggenda, ma nel contempo non la scalfiscono: la rendono semplicemente più umana. Quanto accaduto a Londra ad Usain Bolt nella finale dei 100 metri valida per Campionati Mondiali di atletica, è una di queste sconfitte.

Un copione imprevisto

Justin Gatlin, il guastafeste. Non solo ha rovinato a Bolt lo show di congedo, ma ha tolto anche un’eventuale epilogo alternativo che, paradossalmente, poteva far parte del copione. Batterie e semifinali dei 100 metri hanno messo in mostra l’astro nascente della velocità. Christian Coleman possiede forza fisica, grinta e talento: dei tre andati sul podio è l’unico di cui non si conosce ancora il reale potenziale.

Stiamo parlando di un ragazzo che ai campionati universitari americani ha corso i 100 metri in 9”82 ed è stato l’unico atleta, finora, capace di queste performance nel 2017. Dalle competizioni universitarie ai Campionati del mondo, passando per i trials. Il passo sembra lunghissimo, ma non lo è certamente negli Stati Uniti.

Coleman ha ostentato sicurezza, sapeva che il confronto con Bolt sarebbe arrivato, ma non ha lasciato trasparire la minima emozione. Lo sguardo di re Usain, quando gli ha recuperato metri su metri in semifinale battendolo agli ultimi passi odorava già di sfida per il titolo. Non inganni il sorriso sornione sfoderato nella circostanza, il campione giamaicano aveva individuato in lui l’avversario più forte ed era consapevole dello sforzo che lo attendeva in finale, così come Coleman sapeva di doversi guardare le spalle dalla devastante progressione finale di Bolt. Il copione a questo punto iniziava a mettere in conto un altro tipo di epilogo, quello dell’erede designato dalla pista che prende il posto del sovrano.

Alla fine Coleman ha vinto la sfida e si è lasciato Bolt alle spalle, ma hanno impiegato entrambi qualche secondo prima di capire che il terzo incomodo li aveva beffati.

Diamo a Gatlin ciò che è di Gatlin

Oggi questa gara viene celebrata come l’abdicazione di Bolt dal trono dei 100 metri e, certamente, sarà così negli anni a venire. Eppure è ingeneroso non riconoscere a Gatlin i meriti di una corsa tatticamente perfetta. Non stiamo parlando del carneade della situazione, il velocista di Brooklyn ha vinto titoli mondiali ed olimpici ed era il numero uno nella prima metà degli anni 2000, prima che lo scandalo doping lo travolgesse. Quando è tornato in pista, dopo quattro anni di squalifica, il regno di Bolt era già al massimo splendore e Gatlin ha dovuto lottare contro un avversario invincibile, ma anche contro i pregiudizi della gente che lo additava come un atleta dopato: due battaglie che lo avevano visto sconfitto per sette lunghi anni, a parte qualche parentesi felice, e che lo hanno segnato anche a Londra.

I fischi nei suoi confronti, tutte le volte che lo speaker dello stadio Olimpico annunciava il suo nome, non li condividiamo. Una sorta di contraltare alle acclamazioni che Bolt riceveva nella medesima circostanza, lasciandosi andare alle moine davanti la telecamera che lo hanno reso famoso tanto quanto le sue vittorie ed i suoi primati. Jutin Gatlin ha ingoiato il rospo e quando ha tagliato il traguardo davanti a tutti, quasi incredulo, ha dedicato il primo pensiero ai denigratori con un gesto polemico. Poi si è lasciato andare, Justin ‘il duro’ ha pianto di gioia e rabbia. Ha vinto semplicemente perché è stato il più veloce, aveva già conosciuto quella gloria, ma questa non è una vittoria come le altre.

È il trionfo inatteso che riscatta una carriera oscurata dai suoi errori e da Bolt. Oggi Gatlin lo abbraccia da atleta pulito, oggi guarda Bolt e probabilmente rimpiange di avere già 35 anni e di dover appendere tra non molto le scarpette al chiodo. Oggi è il campione mondiale dei 100 metri a dodici anni dall’ultimo titolo iridato vinto sulla stessa distanza, un primato certamente non da poco. Ma passa ingiustamente in secondo piano rispetto allo sconfitto che lascia da re senza corona la specialità di cui, comunque, detiene ancora il primato del mondo.

Il fenomeno Coleman

Già, il primato del mondo. Il tempo di 9”58 è ancora oggi inarrivabile, ma rappresenta il sogno di qualunque giovane velocista.

È il sogno di Christian Coleman che inizierà a lavorare per raggiungere questo straordinario traguardo. Il tempo gioca dalla sua parte e l’atteggiamento sembra quello giusto. Un ragazzo che mantiene un basso profilo e che lascia parlare la pista: non è ancora un campione e sa che deve stare al suo posto. Senza la zampata di Gatlin, oggi si parlerebbe di lui come dell’erede naturale di Usain Bolt e la finale di Londra avrebbe celebrato il passaggio delle consegne. Se avrà pazienza ed una giusta dose di umiltà, potrebbe essere il futuro dominatore della velocità pura. Forse è un bene per la sua maturazione di atleta e di uomo che non abbia vinto e che i riflettori su di lui non siano ancora accecanti.

Bolt, il più grande?

Ad ogni modo, come già detto, la sconfitta dona una dimensione più umana ad Usain Bolt, ma certamente non scalfisce la sua leggenda. È lui il velocista più forte di tutti i tempi? I paragoni tra atleti di diverse epoche sono sempre scomodi e, a conti fatti, poco credibili. La velocità ha avuto tanti re, due su tutti prima di Bolt sono diventati termini di paragone: Jesse Owens e Carl Lewis. Epoche diverse, storie differenti, uomini diversi. Owens che, tra tutti gli avversari messi in fila alle Olimpiadi di Berlino del 1936, sconfisse anche Adolf Hitler e le teorie naziste sulla superiorità ariana; Lewis che lo eguagliò nel numero di medaglie vinte in una singola edizione dei Giochi nel 1984 e che rimase sulla cresta dell’onda per 17 lunghi anni, congedandosi con il titolo olimpionico di salto in lungo nel 1996.

Due atleti estremamente poliedrici capaci di dominare la velocità ed il salto in lungo, mentre Bolt è un velocista puro. Tra il 2008 ed il 2009, in poco più di un anno, ha ritoccato per tre volte il record mondiale dei 100 metri e per due volte quello dei 200, è l’atleta più medagliato dei Mondiali di atletica ed a livello di titoli olimpici è secondo solo a Paavo Nurmi e Carl Lewis. Usain Bolt è questo, ma anche molto di più: un personaggio di incredibile carisma dentro e fuori la pista, lo spartiacque tra l’atletica moderna e quella fantascientifica. La sconfitta di Londra non intacca minimamente la sua leggenda, ma allo stesso modo il suo ritiro non lascia nessun vuoto incolmabile. Tra qualche anno saremo qui a parlare di un nuovo campione ed a raccontare la sua storia, augurandoci che diventi leggenda. È la legge dello sport, ma anche della vita.