Continua a far discutere l’intervista rilasciata meno di 48 ore fa a caldo dopo la finale dei 100 metri rana delle Olimpiadi di Parigi 2024 da Benedetta Pilato, 19 anni, che quella gara l’aveva appena corsa dicendosi entusiasta del risultato – un quarto posto – e serenissima per aver vissuto "il giorno più bello della vita": "Ci ho provato fino alla fine, mi dispiace. Però sono lacrime di gioia. Sono troppo contenta, è stato il giorno più bello della mia vita".

A far riflettere non è quanto dichiarato da una ragazza di appena 19 anni, dentro un sogno come solo può essere partecipare ad un’Olimpiade, quanto lo sgomento davanti alla ‘gioia della sconfitta’ palesato prima dalla giornalista Rai – che ad un certo punto si lascia andare ad un: ‘Ma veramente?!’ – e dopo in studio dall’ex schermitrice Elisa Di Francisca (oro a Londra 2012): “Sinceramente non ci ho capito niente, non so se ci fa o ci è.

Non è possibile che dica: sono contenta. È assurdo, è surreale questa intervista, devo essere sincera. Non voleva andare sul podio? E che ci è andata a fare?”.

Appaiono potenzialmente immensi i risvolti del siparietto andato in onda su Rai 2, un calderone in cui possiamo infilare praticamente tutto: l’ossessione del risultato, la necessità della prestazione, la potenziale tossicità di un ambiente per cui si vive e all’interno del quale si opera che può costruire un ponte dorato su cui camminare ma anche creare una voragine in cui sprofondare.

Da Federica Pellegrini a Matteo Restivo, tutti dalla parte di Benedetta Pilato

Diversi sportivi e non hanno commentato il commento – è proprio il caso di dirlo – di Di Francesca a partire da sua maestà Federica Pellegrini, che dall’alto di 26 ori internazionali, 2 medaglie olimpiche, 19 medaglie mondiali, 37 medaglie europee, 180 podi italiani e 129 titoli assoluti sa forse meglio di molti altri sportivi e non che cosa ci sia dietro ad una prestazione o ad una sconfitta.

“A volte un quarto posto, anche se per poco, è il nostro sogno più grande! Perché Benny alla prima Olimpiade uscì in batteria e ieri sera si presentava con il settimo tempo. Le medaglie piacciono a tutti, ma (e questo l'ho capito solo alla mia ultima Olimpiade) a volte conta molto di più il viaggio".

A farle eco Matteo Restivo, che a Parigi 2024 sta gareggiando: “Mettere in croce una ragazza contenta per un quarto posto è l’emblema della mentalità tossica che porta gli atleti ad avere problemi di salute mentale.

Già questo basterebbe per mandare a casa la signora che ha commentato, che dovrebbe intendersi di sport”.

Quando quella del risultato diventa un’ossessione, il caso di Simone Biles

Da ormai diversi anni si parla di sport e psiche come parte di una stessa medaglia. Quella della vita e dell’esistenza che accompagna ciascun individuo nel proprio percorso.

Quando quest’ultimo però è fatto esclusivamente di prestazioni, di agonismo, di gare, di vittorie e sconfitte, l’ambiente nel quale ci si esibisce e dal quale si ottengono fondamentalmente i nutrienti utili a sopravvivere può esso stesso diventare la prima fonte di depressione. Di crollo. Può assurgere a origine di ogni male, a schiavitù del proprio intelletto.

Come non pensare allora al caso di Simone Biles, ginnasta USA che nelle Olimpiadi di Tokyo 2020 ha deciso di ritirarsi dalla finale a squadre femminile e dalle quattro finali individuali per dare priorità alla sua salute mentale. Troppo stress con un limite di sopportazione che era ormai stato raggiunto: "Mentre i problemi di salute fisica sono trattati con rispetto, quelli di salute psicologica vengono spesso presentati in modo sensazionalistico, come se fosse un tabù o una debolezza parlarne in pubblico" ha dichiarato al riguardo all’epoca dei fatti David Lazzari, presidente del Consiglio nazionale dell'Ordine degli psicologi.

E allora, “se la Psicologia – ha proseguito ancora Lazzari – deve essere vista come una risorsa fisiologica”, quello esibito dalla neanche 20enne Benedetta Pilato può essere considerato uno splendido manifesto di vita prima che di sport. Competere e pretendere il meglio da se stessi è la turbina di ogni grande successo, ma coltivare ‘la gioia della sconfitta’ dando valore a prescindere a tutto ciò che è stato fatto è forse il vero mezzo attraverso cui dare spessore ai successi quando arrivano. E alle delusioni stesse, che mostrano i nostri limiti senza tuttavia la necessità di dover permearli di quel senso di fallimento di cui la società, a volte e in modo quasi sempre involontario, vorrebbe convincerci.

In uno dei suoi saggi scritti nel 2005 il professore Kerry Mummery concentrò la propria analisi proprio sul livello più alto raggiungibile: quello olimpico, parlando in particolare di come una sorta di mal di vivere (o di esistere) permeasse addirittura più i medagliati che gli sconfitti portando l’esempio dell’inglese Kelly Holmes, oro ad Atene 2004 negli 800 e nei 1500 che negli anni ha sofferto di una forte di depressione che l’ha condotta a procurarsi diverse ferite e a considerare il suicidio: "Gli atleti sono più predisposti delle persone non sportive alla depressione perché le loro richieste funzionali, fisiche e psicologiche, sono un macigno appesantito dall'ambiente in cui essi si esibiscono e dal quale in un certo senso dipendono".

"In otto biografie su dodici di sportivi professionisti emerge la parola depressione" prosegue Mummery. Uno scenario che può farsi ancora più forte, proprio come nel caso della Pilato, negli sport individuali. Una serie di ricerche condotte dalla Technical University di Monaco (Germania), riportate dalla rivista Focus, affrontano l’argomento: "Gli atleti individuali attribuiscono i fallimenti più a se stessi di quanto non facciano gli atleti di squadra" ha dichiarato Jürgen Beckmann, psicologo dello sport tra gli autori della ricerca. "In una squadra c'è diffusione di responsabilità". L’osservazione dei sintomi depressivi di 128 giocatori di hockey e calciatori tedeschi e di 71 performer individuali tra cui nuotatori, giocatori di badminton e velocisti sul ghiaccio - parte di uno dei casi studi del corpus di ricerche -, ha infatti evidenziato come certi pensieri alberghino molto più frequentemente nel secondo focus group piuttosto che nel primo.

Tra i vari temi, la ricerca mette in evidenza un importante elemento: nello sport individuale gli atleti mettono se stessi al centro di tutto ritenendosi gli unici responsabili dei propri ‘fallimenti’.

È allora il bisogno di stazionare sugli stessi livelli di eccellenza a nutrire l’ambizione degli sportivi ma a costituirne anche a volte la tossina potenzialmente più letale: e se il terrore del fallimento, come può essere considerato per qualcuno un quarto posto, diventa invece esso stesso fonte di gioia, come accaduto nel caso di Benedetta Pilato, bisognerebbe forse fare l’opposto di quanto visto in tv. Non solo accettare un ragionamento simile ma anche esaltarlo perché slegato da un risultatismo sfrenato e ossessivo e più ancorato a quello che Federica Pellegrini ha definito il ‘viaggio’. Cioè il come e non il cosa.

Elisa di Francisca alla fine ha telefonato a Benedetta Pilato e si è scusata del proprio commento.