Gli istituti Ixè, Ipse e Demos sono tutti concordi nella generale classifica di gradimento dei partiti. In calo il Pd, seppur primo tra i concorrenti. Secondo, anche se di poco, il M5s, seguito a ruota dalla Lega e da Forza Italia.

Minime sono le variazioni tra i diversi sondaggi degli istituti, che stabiliscono il calo di un paio di punti percentuali del PD, del M5S e l'ascesa del centro destra, che se coalizzato raggiungerebbe una soglia minima del 32 per cento.

'Non è tempo di alleanze'. E Renzi punta sulle scissioni

Storicamente, il problema della sinistra è di natura genetica.

In vista di una qualsivoglia tipologia di elezioni, dalle comunali alle politiche, dalla dissoluzione dello storico Partito Comunista ad oggi, tale categoria partitica ha sempre confuso il bisogno di far fronte comune con l'individualismo delle rispettive appartenenze, che sempre e comunque a sua volta li ha fagocitati con divisioni ed isolamenti.

La frammentazione del Partito Democratico oggigiorno è una delle vicissitudini più inverosimili della storia politica italiana.

Parlare di correnti non sarebbe corretto in questi casi, anche se con una qualche leggerezza semantica possiamo classificare all'incirca sei o sette 'devianze' all'interno del PD.

Le prime sono le cosiddette 'storiche', quelle dalemiane e bersaniane, a cui seguono quelle degli aspiranti capi partito, come Orlando, Civati e Pisapia.

Abbiamo poi Renzi, leader indiscusso e vincitore delle primarie, pronto ad nuovo 'patto del Nazareno', e Prodi, leggendario condottiero antiberlusconiano richiamato in campo per dirimere le controversie interne ed ostacolare l'eventuale ascesa della destra.

Seppur ricco di personaggi di spicco e d'esperienza, Renzi rimani l'animatore principale di piazza e degli animi del PD; animi che lungi da una logica comune si identificano nel personaggio e non nell'organo decisionale, a discapito di una organica politica di partito e di una sua sopravvivenza come entità autonoma ed efficiente.

Il punto debole di Renzi. La sinistra che non è PD

La causa della rovinosa frammentazione del Partito Democratico è ricollegabile ad un unico decisore: Matteo Renzi.

L'individualismo dell'ex sindaco di Firenze si è rivelata catastrofica dopo la sconfitta subita con il referendum costituzionale. Forte di un risultato, seppur perdente, superiore al 40%, la confusione tra consensi e risultato elettorale ha destabilizzato non poco la razionalità dell'ex premier, che lo ha indotto, con azioni e contraddizioni, in un impasse per nulla coerente con il programma di un partito di sinistra.

Ecco dunque il ritorno dell' 'energico' Matteo, che sull'onda delle simpatie nutrite dagli establishment atlantici ed israeliani, si è subito attivato nel circoscrivere e fidelizzare un elevato numero di elettori di sinistra atlantica; elettori simili ma non uguali al vecchio elettorato demitiano della sinistra democristiana, che tuttora loda il suo carisma e sostiene ciecamente le seppur contraddittorie ragioni del segretario del PD. Privi di visione politica, ma carichi di emozioni e sentimenti, la forza del 'Partito dell'Amore' di sinistra, con la sua 'politica del cuore', si coniuga perfettamente con l'immagine e la gioventù dello scout Matteo Renzi.

La strategia politica del leader del PD si configura quindi come una strategia di personificazione ed isolazionismo del suo elettorato che mira a contenere e ad impedire l'emorragia di voti che potrebbe avanzare verso astensioni e populismi, con il fine ultimo di stemperare estremistiche e pericolose rivendicazioni sociali, incanalando in un centrosinistra sterile e moderato le ripercussioni dell'antipolitca e dell'inefficienza dell'attuale Governo.

L'ultima chance del Partito Democratico

Dalemiani, bersaniani, ex vendoliani e via di seguito costituiscono una parte quasi ininfluente all'interno del centrosinistra. Tuttavia, queste divisioni interne insieme alla chiamata di Romano Prodi non favoriscono certo l'unione di cui avrebbe bisogno il PD per competere con i due principali rivali: il Movimento 5 Stelle e la Lega di Salvini.

Oltre a Matteo Renzi, gli altri candidati premier, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, si presentano entrambi molto influenti, con carisma, seppur alla prese con contraddizioni e incoerenze interne. A differenza del PD, il Movimento e la Lega posseggono però un vantaggio non indifferente: l'unione interna dell'elettorato, che seppur in calo di qualche punto percentuale, appare compatto e organico nei confronti della dirigenza interna.

Matteo Renzi tutto questo lo sa, e il mantra 'niente alleanze' - sulla scia di Grillo - mira per l'appunto ad una personificazione forzata del PD con il segretario, che comporterebbe in linea di massima il pericolo di una scissione senza ritorno dei dissidenti.

L'unica alternativa praticabile, oltre alla già fallita pseudo alleanza con Berlusconi, sembrerebbe un'alleanza con i 5 Stelle, gli unici in grado di cavalcare l'onda sia della dissidenza moderata che quella dell'estremismo, possessore di un elevato elettorato che ben potrebbe adattarsi all'ennesima incoerenza pentastellata, data la già comprovata giustificazione del ''fine che giustifica i mezzi''.

Con i suoi 1 milione e 200 mila voti, dunque, Renzi potrebbe mirare senza preoccupazioni al parlamento ed accontentarsi di un ruolo secondario, ma con un rimpasto elettorale potrebbe spingersi oltre e ridefinire le linee di partito nonché quelle di Governo, in bilico tra problematiche nazionali ed europee.

L'italia e il PD rischiano di restare orfani di una rappresentanza politica dato il crescere dell'astensionimo, e questo Renzi, come Grillo e Berlusconi, lo sa. Ricco di slogan e privo di pragmatiche soluzione, Renzi ha deciso di cambiar rotta e di inaugurare la sua realpolitk iniziando dal PD. Dove porterà, non lo sappiamo. Sappiamo per certo che il segretario del PD non è uomo d'opposizione, e che è disposto a tutto per riavere ciò che ha perso: la presidenza del Consiglio. Ma quale prezzo è disposto a pagare?