Può la vita di un uomo valere così poco? Pare di sì, visto che sia accusa che difesa si sono accordate affinché Amedeo Mancini, 38 anni, ultrà della Fermana e oggi accusato di omicidio preterintenzionale, patteggi per una pena di soli quattro anni per aver ucciso, il 5 luglio di quest’anno, Emmanuel Chidi Nnamdi.
A renderlo noto sono stati gli stessi avvocati di Mancini, Francesco De Minicis e Savino Piattoni, i quali già lo scorso 2 dicembre avevano proposto per l’imputato l’attenuante della provocazione e l’eliminazione delle tre aggravanti contestate: la recidiva, i motivi futili e l’odio razziale.
Il pm, in quell'occasione, si era mostrato favorevole alle istanze della difesa, chiedendo tuttavia di mantenere almeno l’aggravante razziale. Sarà ora il gup Maria Grazia Leopardi, che nel frattempo ha attenuato la misura degli arresti domiciliari e concesso a Mancini il permesso di lasciare la sua abitazione per quattro ore al giorno, a decidere se ratificare o meno l’accordo.
Intanto, come già era accaduto all’indomani dell’aggressione, la comunità fermana respinge le accuse di razzismo, nonostante in molti si schierino ancora dalla parte dell’ultrà, conosciuto per le sue idee di estrema destra, fotografato nel 2013 mentre prendeva parte ad un corteo organizzato da CasaPound.
Isolata dal coro, invece, rimane la voce di don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco e della Fondazione Caritas in veritate, che aveva dichiarato lo scorso settembre di volersi costituire parte civile nel processo, per far sì che Emmanuel non fosse dimenticato.
Emmanuel Chidi Nnamdi: scampato a Boko Haram per morire di razzismo in Italia
Proprio don Vinicio, in seguito ai fatti del 5 luglio scorso, aveva rivolto dure parole di condanna contro Amedeo Mancini, raccontando ai microfoni dei giornalisti che il 38enne si era ritrovato spesso coinvolto in risse e tafferugli, riservandosi di chiamare "scimmia" chiunque, con un colore di pelle un po’ più scuro, intralciasse il suo cammino.
Lo stesso insulto che era stato rivolto a Chyniere, la moglie dello sfortunato ragazzo che, scampato ai bombardamenti di Boko Haram, nei quali aveva già perso i suoceri e la figlioletta di appena due anni, ha trovato la morte proprio dove paradossalmente aveva sperato in un futuro migliore.
In molti, nei mesi scorsi, hanno tentato di tracciare dei profili, veri e propri identikit sia della vittima che del suo carnefice.
Ne erano emerse analisi spesso discordanti tra loro, alcune delle quali volutamente faziose e tese ad un ribaltamento dei ruoli, in una vicenda che invece ha un’unica certezza: un uomo è stato massacrato fino alla morte per il colore della sua pelle, per la sua provenienza da quei luoghi in cui una sanguinosa guerra civile miete costantemente vittime innocenti, per la sua presunta incompatibilità con una comunità occidentale, bianca e severa, che si arroga il diritto di condannare il "diverso", lo "straniero", la "scimmia", senza alcun ricorso o patteggiamento che tenga.
Lo stesso che invece, con tutta probabilità, sarà accordato a Amedeo Mancini, in una negazione del "problema razziale" che, volente o nolente, ancora dilaga, sia in Italia che nel "civile" e progredito Occidente.