La decisione presa dal presidente americano Donald Trump, è sicuramente tra quelle che faranno discutere a lungo. Già il segretario dell’Olp ha chiesto espressamente ai rappresentanti statunitensi di revocare la propria decisione in merito all’inaugurazione dell’ambasciata in Israele.

Il 14 Maggio, infatti, a Gerusalemme è stato un giorno di grande festa: una giornata epocale che ha mandato visibilmente in fibrillazione l’intera cittadinanza. Questa ha infatti esposto numerose bandiere “a stelle e strisce”, unite a dei manifesti inneggianti al tycoon più influente del mondo.

Il principale centro di fede del paese è, infatti, stato riconosciuto come “Capitale dello Stato ebraico”. Sebbene il consiglio europeo si sia aspramente opposto a questa scelta, gli USA hanno deciso di partecipare attivamente a questa grande manifestazione.

Ad essi si sono unite Austria, Ungheria, Romania e Repubblica Ceca che hanno inviato dei loro rappresentanti alla cerimonia. Addirittura, le ultime due, seguiranno a breve l’esempio americano, spostando le proprie ambasciate da Tel Aviv a Gerusalemme. Ad ulteriore conferma di questa spaccatura internazionale, vi è la presa di posizione della Russia e dell’Egitto di non inviare una propria delegazione.

Il presidente americano, però, non vi ha presenziato, a differenza della figlia prediletta e della moglie Ivana, insieme al marito della prima, Jared Kushner .

E’ stata, quindi, la moglie di Donald Trump a togliere il velo dalla targa esposta sull’edificio.

Un’ennesima prova del successo riscosso dall’iniziativa, è arrivata dalle numerose richieste, da parte di giornalisti stranieri, di poter entrare in “Terra Santa” per presenziare alla festosa cerimonia. I numeri, addirittura, si aggirano intorno alle 300/400 unità, mai così elevate dal 2014.

Gli scontri e i morti che hanno accompagnato l’inaugurazione

Mentre a Gerusalemme si è respirata una grande aria di festa, sul confine tra Israele e la striscia di Gaza si sono registrati ingenti scontri e un vasto numero di civili feriti o, persino, uccisi. Da anni, ormai, il territorio è dilaniato da continui conflitti politici.

Lunedì, però, l’inviato dell’Onu, Nickolay Mladenov, ha affermato che sono morte almeno 63 persone e ne sono rimaste colpite tra le 2.500 e le 2.700.

Nel resoconto portato al Consiglio di sicurezza, Mladenov ha affermato la colpevolezza di entrambe le parti in causa: ad Israele è stato imputato il non saper proteggere, in modo adeguato, le proprie frontiere dagli attacchi terroristici. Ad Hamas, di contro, viene chiesto espressamente di non utilizzare queste circostanze confusionarie per collocare ordigni esplosivi sulla barriera di sicurezza tra le nazioni in lotta.

L’indignazione palestinese deriva dal fatto che, la manifestazione, è coincisa con la loro commemorazione per il 15 Maggio: la “Nakba” o “catastrofe” (celebrazione in ricordo della nascita dello stato d’Israele).

Le decisioni palestinesi sono state quindi drastiche: 1.300 civili hanno esternato il proprio disappunto in 18 aree diverse della Cisgiordania. Abu Amazen, il presidente dell’Autorità palestinese, ha dichiarato “massacro” l’azione israeliana sulla Striscia di Gaza ed, inoltre, quest’ultimo ha chiesto espressamente che gli USA non si dichiarino più “garanti dell’ordine” tra le due forze in conflitto.

Nel resto del globo sono state, invece, prese alcune decisioni ben più strategiche e diplomatiche: Sudafrica e Turchia hanno richiamato in patria i rispettivi ambasciatori, come segno di protesta nei confronti delle vittime palestinesi. Ankara, infine, ha dichiarato “genocidio” le rappresaglie israeliane nei confronti dei manifestanti presenti nella Striscia di Gaza.