“Sarà il vostro ponte di Brooklyn…” dichiarò con entusiasmo ai genovesi Giuseppe Saragat, il Presidente della Repubblica che il 4 settembre 1967 percorse da Ponente a Levante i 1128 metri che separavano la galleria di Coronata da quella del Belvedere di Sampierdarena: in mezzo tutta la Val Polcevera.

Il Ponte Morandi: per alcuni il viadotto per altri l’obbrobrio

Che si chiamasse Ponte Morandi molti genovesi lo hanno scoperto solo martedì con la tragedia: per tutti a Genova quello è il Viadotto Polcevera. Secondo alcuni una mostruosità, anzi… un obbrobrio com’era stato ribattezzato da alcuni abitanti dei quartieri della vallata ma secondo la stragrande maggioranza degli abitanti del capoluogo ligure quel ponte era anche un male necessario.

Genova non ha strade, o meglio: ne ha solo una, l’Aurelia, che percorre la riviera e di fatto passa tra i quartieri della città. Prima del viadotto tutto il traffico passava di lì: da ponente a levante, viceversa e lungo le principali vallate che portano nell’entroterra. Valle Stura, Val Varenna, Val Polcevera, Val Bisagno e le vallate del levante: ogni vallata porta il nome del torrente che lo attraversa e sono nomi conosciuti perché quasi tutti in passato hanno portato alluvioni e morti. Genova ha un rapporto con le tragedie purtroppo consolidato.

Un ponte elastico: secondo alcuni anche troppo

Il ponte per oltre cinquant’anni ha assolto al suo compito di alleggerire il traffico della città subendo innumerevoli lavori di ristrutturazione e manutenzione.

In pratica il viadotto è un cantiere continuo dagli anni ’90 quando al termine di un lavoro di consolidamento interminabile tutte le dieci campate furono rinforzate con tiranti lunghissimi che avrebbero dovuto rendere la struttura più solida ma anche più elastica. La sensazione che si aveva passando sul ponte era quello di un rollio che si intensificava al passaggio di pullman e mezzi pesanti.

Normale, dicono gli esperti: una struttura del genere deve rispondere alle sollecitazioni con elasticità. Tuttavia quello che Morandi, scomparso nel 1989, e i progettisti della Condotte non avevano calcolato è che in pochi anni Genova sarebbe uscita completamente stravolta.

I cinquant’anni del Ponte Morandi che hanno stravolto Genova

Un paradosso. Il primo censimento degli anni ’70 vede Genova come terza città italiana: oltre un milione di abitanti. Una città fortemente industriale con il primo porto del Mediterraneo, uno dei più importanti d’Europa. Ma le macchine erano meno di un quinto di quelle che circolano oggi da Voltri a Nervi. Non solo: è stato costruito il nuovo porto di Voltri, il VTE, e la logistica è completamente cambiata. Negli anni ’70 il porto lavorava con rimorchi e merci varie. Oggi quasi tutto viaggia su autoarticolati e container: molti più mezzi, molto più peso. Un traffico incessante che esce dal varco di Sampierdarena e ha tre alternative: andare a Levante verso Livorno, a Nord su per i Giovi verso Milano o imboccare il Viadotto Polcevera verso Ponente, Francia e Torino.

Oggi Genova conta poco più della metà degli abitanti di cinquant’anni fa ma tutti hanno due, tre macchine e i camion in transito sono decine di migliaia.

Le prime ipotesi sul crollo del Ponte Morandi

Già martedì è iniziata la corsa all’ipotesi: cosa ha provocato il crollo? Occorreranno settimane e indagini molto accurate. Che quel ponte dopo cinquant’anni dovesse avere un’alternativa, e subito, era chiaro a tutti. Da vent’anni si parla della Variante Gronda, una bretella che avrebbe dovuto togliere molto traffico dal Polcevera; ma la protesta popolare ha prima rinviato e poi respinto i lavori. Ora di alternative non ce ne sono più: impensabile risistemare il ponte. Andrà demolito progressivamente mentre le case popolari sottostanti dovranno essere mano a mano evacuate.

Un lavoro difficile e lungo. Nel frattempo serviranno soluzioni che in una struttura urbana problematica come quella di Genova sono incerte anche solo da ipotizzare. Per mesi, anzi… anni la A10 resterà chiusa tra Aeroporto e Genova Est; Levante e Ponente sono di fatto spezzati e tutto il traffico – anche quello dei mezzi pesanti – dovrà passare in città. Per azzardare un paragone è come se da domani ai milanesi togliessero le tangenziali, o a Roma si dovesse fare a meno del Grande Raccordo Anulare.

Il composto dolore della città: due giorni di lutto

Nel frattempo Genova è in lutto: un dolore composto e silenzioso, i genovesi purtroppo ci sono abituati. I tributi pagati dalla città in questi ultimi anni sono innumerevoli: la torre di controllo del porto abbattuta da una nave, almeno sei alluvioni devastanti con vittime e danni per migliaia di milioni di euro, il G8, l’affondamento della petroliera Haven, l’esplosione della Haikoku Maru e quella di un serbatoio di metanolo alla Attilio Carmagnani.

Gli angeli del fango che hanno scavato e ripulito per settimane la città dal disastro dell’ultima alluvione si sono precipitati in motorino anche sotto il viadotto caduto per dare una mano. Genova è una città indubbiamente strana, difficile: in pochi anni sono stati accatastati a ridosso delle case un aeroporto, un porto petroli, un polo petrolchimico, un’acciaieria e numerose attività industriali a rischio. Porre rimedio? Ci si doveva cominciare a pensare venti, trent’anni fa. Oggi è tardi. Il 14 agosto resterà impresso nella storia come una dei giorni più funesti e assurdi di una città che ne ha passate di tutti i colori e si è sempre rialzata ma che della vecchia Superba ha solo un soprannome ridondante. Genova è un’anziana signora stanca e malata, con tanti problemi, troppi lutti e la necessità che qualcuno se ne occupi sul serio.