L'omicidio di Marco Vannini è uno dei casi che ha mobilitato maggiormente l'opinione pubblica e, il prossimo 3 maggio, la Corte di Cassazione metterà la parola fine a questa drammatica vicenda. I fatti risalgono al 17 maggio del 2015, quando Marco Vannini, appena ventenne, fu ucciso da un colpo di pistola mentre si trovava a casa della sua fidanzata, a Ladispoli. Antonio Ciontoli, il capofamiglia, ha ammesso di aver premuto il grilletto "per gioco", pensando che l'arma fosse scarica. Nell'appartamento, al momento della tragedia erano presenti anche Martina Ciontoli, fidanzata della vittima, sua madre Maria e il fratello Federico con la sua fidanzata Viola.

Secondo quanto ricostruito in fase di indagine, a contribuire alla morte di Marco sarebbe stato anche il ritardo nei soccorsi che i giudici hanno quantificato in 110 minuti: con un intervento tempestivo, il ragazzo si sarebbe potuto salvare. I giudici della seconda Corte d'Assise di Appello hanno condannato Antonio Ciontoli a 14 anni per omicidio volontario e a nove anni e quattro mesi la moglie e i due figli, Martina e Federico, per concorso anomalo in omicidio volontario.

Un lungo silenzio prima di esporsi

A pochi giorni dalla sentenza di Cassazione, abbiamo incontrato Federico Ciontoli che all'epoca dei fatti aveva 23 anni e che adesso attende il giudizio che potrebbe aprirgli le porte del carcere.

Federico Ciontoli, dopo anni di silenzio ha deciso di comunicare attraverso i social la sua verità. Perché ha atteso tutto questo tempo?

I motivi del mio silenzio pubblico sono stati tanti: la paura, l’incredulità, la sofferenza, il rispetto, e anche la convinzione che il processo reale avrebbe messo a tacere le falsità che l’informazione mainstream diffondeva.

Questo non è successo. La morte di Marco ha sconvolto milioni di persone, basta che io mi guardi attorno, conti il numero delle finestre del palazzo che ho qui davanti a me, e sono sicuro che se bussassi a ognuna di quelle finestre, tutti saprebbero di cosa stiamo parlando. La sola idea della morte di Marco mi distrugge. L’idea che milioni di persone pensino che io sia un assassino, solo perché non sanno davvero cosa sia successo quella sera, ha fatto sì che io mettessi da parte le mie paure e le mie convinzioni, e iniziassi a parlare pubblicamente, utilizzando proprio quegli strumenti che, in un certo senso, hanno sancito la mia condanna a morte sociale, la mia inesistenza come essere umano.

Voglio anche lasciare un segno di speranza per chi verrà dopo di me e penserà di non poter affrontare una vita simile alla mia.

In prima udienza al processo di Appello ha parlato di "Fabbricare una colpa": può spiegare perché pensa che qualcuno abbia voluto costruire quella che lei definisce "Una figura crudele"?

Non esiste giustizia terrena che possa ristabilire un equilibrio rispetto a una vita strappata ingiustamente a un ragazzo di 20 anni. Questo porta moralmente e umanamente a cercare un colpevole tanto mostruoso quanto assurda è l’ingiustizia che Marco ha subito. Ma se quel mostro non esiste, non resta che “fabbricarlo” ad hoc. Sostanzialmente, la condanna simbolica e mostruosa precede l’effettiva realtà degli eventi.

Un ragazzo di 20 anni è morto per un colpo di pistola e perché non è stato soccorso in modo adeguato. Se non si vuole accettare che sia stato un tragico incidente, allora non resta che ipotizzare che ci sia un essere crudele, una “bestia crudele” (come mi definiscono molte persone) che abbia potuto fare una cosa del genere. Ma la realtà è che io quella sera non capii quello che stava accadendo perché mi fidai di mio padre, credetti alle sue bugie, e perché, in un primo tempo, quello che vedevo non mi permise di mettere in dubbio ciò che diceva mio padre. Sono e mi sento responsabile per essermi fidato e aver creduto a mio padre, non cercando così di andare a fondo per capire, ma quella sera tutto quello che feci lo feci con un’unica cosa in testa, e cioè far stare meglio Marco.

In questi sei anni ho messo in discussione ogni minima parte di me, arrivando a dubitare che avesse un senso continuare con la mia vita, ed è un’unica consapevolezza che mi ha permesso di rialzarmi (insieme alla mano tesa di Viola). Tale consapevolezza consiste nel fatto che, purtroppo, quello che feci fu il mio massimo in quelle condizioni e che il mio unico interesse fu far stare meglio Marco. Nella mia dichiarazione ho anticipato quello che è successo poi con la sentenza di Appello Bis, la quale ha voluto “fabbricare una colpa” e considerarmi “una figura crudele”, di fatto andando a trascurare le prove processuali le quali invece dimostrano che ho sempre raccontato è la verità.

Il 3 maggio, la Cassazione calerà il sipario su questa drammatica vicenda. Come sta vivendo questi giorni di attesa?

Sto cercando di vivere tutto quello che, se sarò in carcere, non potrò più vivere.

Il calore della pelle di Viola, il movimento del mare, il rumore della sabbia sotto ai piedi, la libertà di poter scegliere all’improvviso di andare dove voglio senza un motivo specifico. Sto raccogliendo nella mente quante più immagini da poter riutilizzare quando sarò triste, e sto raccogliendo nel cuore quante più emozioni positive per poter alimentare il cuore quando sarà stretto in una pressa. Per il resto, non è la possibilità del carcere che mi preoccupa di più, ma il dover convivere con una ulteriore sofferenza per un’ingiustizia evitabile quale sarebbe la conferma della mia condanna. Negli scorsi sei anni, ho dovuto abbandonare il pensiero del futuro per poter sopravvivere, e questo mi ha permesso di scoprire che è proprio nei momenti più bui che la meraviglia dell’essere umano viene fuori.

Se penso alla condanna ora, non respiro più, ma anche questa volta abbandono il pensiero del futuro nella speranza di potermi meravigliare ancora.

Il rapporto con la famiglia e le paure di Federico Ciontoli

In un recente pensiero lei ha scritto: "Ho paura delle poche certezze che mi sono rimaste". Quali sono?

Dal 18 maggio 2015 ad oggi, ho visto cadere una ad una le mie certezze. La figura genitoriale, il giornalista, il politico, l’avvocato, il magistrato, il giudice, tutte queste figure che per motivi diversi erano per me punti di riferimento affettivi, sociali, civili. Hanno mostrato d'avere dei limiti semplicemente perché siamo tutti esseri umani. Dopo aver visto in che modo dogmatico le persone presumevano di sapere una verità che in realtà non sapevano affatto, tre o quattro anni fa decisi di tatuarmi la parola “Dubbio” per poter sempre ricordare a me stesso ogni giorno, quando mi guardo allo specchio, che sono limitato, che posso sbagliare, e che devo sempre mettere almeno un po’ in dubbio le mie certezze, soprattutto se sto parlando di cose che non ho vissuto in prima persona.

Voglio evitare con tutto me stesso di poter commettere gli stessi errori che hanno portato me oggi a essere in queste condizioni. Oltre alla certezza di un dubbio, l’importanza del chiedere aiuto, del condividere, della necessità dell’amore e di essere sempre se stessi, di fermarsi ad ascoltarsi: sono le certezze che mi sono rimaste.

Com'è cambiato il suo rapporto con la famiglia, se è cambiato, da quella tragica domenica sera?

Il rapporto con la mia famiglia non è mai stato idilliaco. Siamo sempre stati molto diversi, ogni mio pensiero era “bastian contrario” o “fare il filosofo”, e nel periodo di quella maledetta sera non vivevo più a casa da un po’. D’altra parte, la gogna che anche loro hanno subito non la meriterebbe nessuno, nemmeno il peggior criminale.

Sono sicuro che mio padre non abbia potuto immaginare che Marco potesse morire. Da quella assurda e tragica domenica sera a oggi, per vari motivi, ognuno ha vissuto la sua vita indipendente, ci siamo visti forse 15 o 20 volte, ci sono stati mesi in cui non ci siamo parlati né visti. Perdonare certi errori, indotti o meno, ai propri genitori non è facile. Mi spiace per quello che sta subendo mia sorella, aveva 20 anni anche lei quando è successo tutto, non ci siamo parlati molto in questi anni, ma so che forse ancora non è riuscita a fare i conti con la realtà di quello che è successo e che potrebbe succedere.

Cosa spera per il futuro e cosa rimpiange maggiormente del suo passato?

Come dicevo, al futuro ho imparato a non pensarci.

Del passato rimpiango e rimpiangerò sempre di essermi fidato e aver creduto a mio padre. Sapere che Marco si sarebbe potuto salvare, e che se io non mi fossi fidato o non gli avessi creduto, forse sarebbe ora qui, è un rimpianto e una sofferenza che mi accompagnerà per tutta la vita. Umanamente, l’unica cosa che potrebbe attenuare questa sofferenza sarebbe ricevere il perdono da parte di Marina e Valerio. Marina ha da poco dichiarato che devo marcire in carcere, il che mi fa pensare che è forse ancora presto per poterne parlare, sicuramente non tramite i media. Lo capisco, sono stati condannati a vita a soffrire la perdita di un figlio. Li aspetterò sempre, la mia speranza non si spegnerà mai.

C'è qualcosa che crede di non aver ancora detto o non aver spiegato abbastanza e che vorrebbe si sapesse?

Sicuramente c’è, ci sono tante cose che vorrei dire, ma ora mi sento davvero molto stanco.