Il maxiprocesso Rinascita-Scott prosegue a ritmo serrato. Alla sbarra oltre 300 imputati coinvolti nell’operazione del dicembre 2019 coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri. Nell’aula bunker di Lamezia, allestita negli stabili in disuso della Fondazione Terina, è stato oggi ascoltato il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso, figlio del boss di Limbadi Pantaleone detto “l’Ingegnere”. Il 33enne, che non risulta imputato nel processo, ha risposto alle domande della difesa nel corso del controesame.

Su sollecitazione dell’avvocato Diego Brancia ha ricostruito le fasi del proprio “pentimento”.

“La prima delle ragioni che mi hanno spinto a collaborare con la giustizia – spiega Emanuele Mancuso in videoconferenza da sito riservato - è la nascita di mia figlia. Volevo cambiare vita, ho ricevuto delle lettere minacciose di mio fratello mentre ero in carcere perché mi ero avvicinato al clan Soriano. Mi sono sentito tradito da alcuni ‘ndranghetisti. La vicenda degli attentati all’imprenditore Antonino Castagna, cristallizzata nel processo Nemea, ne è un esempio”. Una trama di violenze in cui il gruppo dei Soriano aveva colpito l’impresario solo per dare una prova di forza al suo protettore Antonio Mancuso.

“Si trattava – ha chiarito Emanuele Mancuso - di un accordo che non è stato rispettato, mi sono così trovato tutti contro inclusi mio fratello e la mia famiglia”.

Emanuele Mancuso: 'Mai fatti rituali di affiliazione, ero ‘ndranghetista per discendenza'

In merito ai sentimenti di vendetta nei confronti dei propri congiunti, il giovane collaboratore di giustizia ha inteso fare alcune precisazioni.

“Il mio non è risentimento, - ha dichiarato Emanuale Mancuso - amo la mia famiglia e per me è difficilissimo stare solo. Ci penso tutti i giorni. Essendo figlio di Pantaleone e nipote di Luigi Mancuso facevo parte del clan pur non avendo mai partecipato a nessun rituale di affiliazione. Non ho mai avuto doti, ero parte del clan per discendenza.

Ritengo santi, madonne, sangue, stupidaggini, sono pratiche che ho sempre odiato. Se me lo avessero proposto gli avrei riso in faccia, non mi piacciano queste cose. È noto che conoscevo Giuseppe Soriano controllava la zona di Filandari, ma la sua influenza nel narcotraffico, in particolare sulla vendita al dettaglio, si estendeva anche ad altre zone del vibonese”.

Marijuana in Toscana, debiti in Calabria

Durante il controesame è stato ricostruito il movente dell’aggressione a Valerio Navarra 27enne di Rombiolo trapiantato in Toscana, a Montecatini. Un evento legato a un prestito di denaro per sbloccare un carico di marijuana di circa 200mila euro proveniente dall’Albania. “Giuseppe Navarra – racconta Emanuele Mancuso - era venuto da me dicendo che il fratello aveva legami con degli albanesi nella zona di Prato e gli serviva un anticipo di 30mila euro perché erano in difficoltà visto che gli aveno sequestrato la pizzeria di Montecatini.

Si erano rivolti a Salvatore Ascone di Rosarno che gli aveva negato questo finanziamento, poi intervenni io e lui acconsentì a dar loro il denaro. Una volta arrivata la marijuana a Limbadi, Ascone ne trattenne 32 chili e mezzo a garanzia del pagamento, pegno che si trasformò in un regalo per il favore ricevuto. Presi personalmente i soldi da Ascone e li diedi a Giuseppe Navarra il quale non li aveva restituiti e si era reso irreperibile".

L'aggressione a colpi di falce

"Siccome non riuscivo a rintracciare Giuseppe Navarra ho raggiunto suo fratello Valerio che aveva stipulato l’accordo con gli albanesi a Prato e ho iniziato a colpirlo ripetutamente con una falce. Era bianco come una carta, non reagì, balbettava, finché non mi hanno allontanato e poi portato dal boss di Zungri Peppone Accorinti.

Ci siamo poi incontrati con Giuseppe Navarra. Sono andato insieme a Mirko Furchì, Giuseppe De Certo e mio cugino Giuseppe Mancuso. Eravamo tutti armati, io avevo la mia calibro 38, De Certo un mitra. Giuseppe Navarra ripeteva “scusa, scusa, io sto con i Mancuso”, lasciando intendere che il fratello Valerio era con gli Accorinti. Proposi per pareggiare il conto 50mila euro e un’audi A3 in cui trovai una cimice montata a Cosenza che ho distrutto. Solo che per rispetto a Peppone Accorinti i soldi dovevano essere 30mila e non 50mila. Dopo 2/3 giorni ci incontrammo nella campagna di Giuseppe Navarra e mi diedero i 30mila euro”.

I Mancuso e il petrolio, le amicizie in Congo

“Alcuni miei familiari investivano nelle pompe di benzina.

La mia famiglia – ha rivelato il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso rispondendo alle domande del pm Annamaria Frustaci - aveva rapporti con ambasciatori del Congo. Il periodo in cui furono ospitati dai miei genitori, papà era libero, credo fosse il 2014. Questo ambasciatore ci fornì diversi passaporti, i miei familiari avevano rapporti con politici africani. Il giorno in cui vennero a trovarci i diplomatici del Congo, mio padre aveva detto comportati bene, non farmi fare brutte figure a tavola perché ci sono ospiti importanti. Vennero almeno due volte, poi appresi che mio padre stava investendo nel petrolio”.

I distributori di benzina della 'ndrangheta

“La mia famiglia – dichiara Emanuele Mancuso - si occupava anche di distributori di benzina.

Al nord mi ricordo quello aperto da Alfonso Cuturello nei pressi da Novara. In Calabria c’erano le due stazioni di carburante di Antonio Solano che di fatto erano di mio padre. Un’altra a Gioia Tauro. Poi c’era la stazione di servizio Yes di Mesiano, monte Poro, che faceva riferimento a Giovanni Mancuso, ma se ne occupava Giuseppe Mancuso insieme al compagno della figlia alla quale era intestata e che la gestiva in prima persona. L’amante di Francesco Mancuso, alias Tabacco, invece stava aprendo un’altra stazione di benzina a Gioia Tauro, non ricordo dove. In una circostanza, mio cugino Giuseppe Mancuso è andato in Sicilia ad un appuntamento con dei fornitori di carburante, attesero oltre otto ore, ma non si presentarono perché avevano paura”.

Il collaboratore di giustizia Emanuele Mancuso oggi ascoltato dal collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia presieduto da Brigida Cavasino con a latere i giudici Gilda Romano e Claudia Caputo è parte civile nel procedimento.