Coney Island, New York, anni '50. Ginny (Kate Winslet), ex attrice teatrale ormai alla soglia dei quarant'anni, lavora come cameriera in un modesto ristorante di pesce locale. E' sposata in seconde nozze con Humpty (Jim Belushi), giostraio dai modi goffi segnato da ciclici problemi legati all'alcool. L'esistenza di Ginny è caratterizzata da costanti crisi nevrotiche, dovute in gran parte al rimpianto per una giovinezza ormai trascorsa, non vissuta in tutte quelle possibilità che il suo talento e il suo temperamento sembravano poterle offrire. Il burrascoso rapporto con Humpty e la complessa gestione del figlio Richie, affetto da piromania, non fanno che aggravare una già precaria stabilità emotiva e famigliare.
Un'inaspettata opportunità di riscatto sembra però giungere dal fortuito incontro con il giovane Mickey (Justin Timberlake), bagnino di buona cultura aspirante commediografo, col quale Ginny avvia una passionale tresca amorosa, consumata in ogni modo e in ogni luogo (in ogni lago no, siamo al mare). Il quadro è però sconvolto dall'arrivo di Carolina (Juno Temple), figlia di primo letto di Humpty, in cerca di rifugio presso la casa paterna. Carolina è difatti in fuga dal forse prematuro matrimonio con un efferato e misterioso gangster, che ha incaricato i suoi scagnozzi di ritrovarla ad ogni costo. Humpty, che aveva interrotto ogni legame con la figlia ribelle da cinque anni, dopo le prime dimostranze d'ira e di rancore, ritrova serenamente la gioia del legame genitoriale.
La presenza della bella Carolina non incontra, però, il favore di Ginny. Mickey si mostra in effetti sempre più interessato alla figlia di Humpty: il tango della gelosia può avere inizio...
Un elegante (auto)citazionismo
Già in "Annie Hall" Allen aveva menzionato il Luna Park di Coney Island, quando faceva narrare al suo alter-ego Alvy Singer di aver abitato (con non pochi disagi) sotto le montagne russe di quel parco divertimenti.
Ma non si tratta dell'unica citazione rintracciabile in questo "Wonder Wheel", nuova pellicola del cineasta newyorkese. Nel primo vero confronto tra Mickey e Ginny ci troviamo in un bar. Mickey, col suo carisma ed i suoi racconti accompagnati da una sigaretta tra le labbra, ammalia letteralmente la moglie di Humpty. In via del tutto simile, nell'ottimo "Match Point", la spregiudicatezza di Nola (Scarlett Johansson) penetrava, di fronte a un drink, lo sguardo dello spaesato Chris Wilton.
Ginny è nevrotica, instabile, in preda a continui mal di testa: ci ricorda di certo la Cate Blanchett di "Blue Jasmine". Donne non più giovanissime, ancora fascinose, ma dalla vita tormentata.
Allen sembra allargare anche altrove i suoi riferimenti cinematografici. Ginny dichiara a Mickey di avere 35 anni, tranne poi ritrattare a 38, anzi 39 (come Michelle Pfeiffer in "Paura d'amare"?)... Il piccolo Richie, oltre ad appiccare il fuoco ovunque se ne presenti l'occasione, adora il Cinema e (troppo) spesso preferisce le novità in sala alle lezioni scolastiche. Un vero "diavolo a quattro", che sfugge tanto al controllo materno quanto a quello terapeutico. Ma la sua passione per i film, sentenzia Humpty, "finirà col rovinargli la vista": con le stesse parole si rivolgeva al figlio la madre di Antoine Doinel, nel truffaultiano "Les Quatre Cents Coups".
Il personaggio interpretato dalla Winslet mantiene costantemente una certa tensione teatrale, sino ad esasperarla nel suo ultimo (magnifico) monologo: l' espressione estatica, il linguaggio ricercato, la mano che accompagna morbidamente il coprispalle non possono non rimandarci alla "Venere in pelliccia" interpretata da Emmanuelle Seigner nell'opera di Polanski. Si tratta di un citazionismo non calcato, quasi taciuto, ma che ci indirizza verso situazioni ricorrenti del cinema alleniano, nonché a modelli spesso perseguiti.
Tra luci e qualche ombra
In quest'ennesima opera dell'ottantaduenne Woody Allen (che sembra non aver incontrato un particolare apprezzamento negli USA) non ci troviamo più nelle atmosfere glamour di "Cafè Society" piuttosto che nei passages di "Midnight in Paris". Allen, stavolta, ambienta i suoi intrecci tra gli strati più umili della società americana del dopoguerra.
E all'uso solito di un caldo beige preferisce la splendida fotografia diretta dal premio Oscar Vittorio Storaro, contraddistinta da un cromatismo al neon che si alterna intelligentemente sul volto delle protagoniste. La meravigliosa ruota panoramica di Coney Island illumina così di rosso lo sguardo irrequieto di Ginny, per allentarsi in tenui sfumature blu sulle più serafiche espressioni di Carolina. Le luci del luna park rimarcano, così, gli stati d'animo dei diversi personaggi.
Non siamo di fronte ad un'indimenticabile pellicola del sin troppo prolifico Allen: il film risulta, tuttavia, più che gradevole. Il buon ritmo della prima parte meritava di esser mantenuto sino alle battute successive, che in qualche esito peccano di una certa approssimazione.
Ritroviamo, ovviamente, tutti i tratti ricorrenti del cinema alleniano: crisi nevrotiche, figure macchiettistiche, riferimenti colti, tresche amorose, buona musica jazz. Woody Allen, ormai da tempo, più che un semplice autore costituisce un genere. Un genere da prendere o lasciare. E quest'ultima opera non fa che costituire l'ennesimo tassello di quella terapia, ossia il film a cadenza annuale, che Allan Stewart Königsberg (nome all'anagrafe del buon Woody) si è da anni autoimposto per sfuggire al deprimente pensiero della morte, nei confronti della quale continua a professarsi decisamente contrario.