La Profezia dell'Armadillo nasce come graphic novel dalla geniale matita di Michele Rech, in arte Zerocalcare, e diventa in fretta un caso letterario con oltre cinque ristampe, capace di solleticare le corde di quelle generazioni nostalgiche degli anni '90 e oggi cristallizzate tra le infinite possibilità del web e una permanente precarietà.
Dal fumetto alla pellicola, passando per Venezia
Il film in realtà ha avuto una genesi un po' travagliata, ma alla fine è arrivata questa ghiotta opportunità per il regista debuttante Emanuele Scaringi, che avvalendosi di un cast tanto giovane quanto imprevedibile è riuscito a ricevere moltissimi complimenti già all'interno della prestigiosa vetrina della 75° edizione del Festival del Cinema di Venezia.
Siccome mi stanno a fa giustamente un sacco di domande sul film della Profezia dell'Armadillo, 3 pagine di fumetto riassuntive cosi non passo l'estate a ripete le stesse cose. pic.twitter.com/IGnDCSpSJQ
— zerocalcare (@zerocalcare) 30 luglio 2018
Giovedì 13 settembre, per presentare l'anteprima al pubblico, il regista, con alcuni attori del cast, ha scelto il multisala The Space di Guidonia, città della periferia romana che ha visto crescere proprio lo stesso Scaringi, che per l'occasione ha voluto concederci questa intervista.
'Io mi sento a casa a Siviglia, a Roma, in Sudamerica, dipende dalle persone'
Dopo il successo riscosso a Venezia, forse Guidonia va un po' stretta. Ma c è un forte legame tra le storie di Zerocalcare e la periferia romana.
Quanto ha influito essere cresciuto qui nella realizzazione del film?
"Non ho mai badato al successo. Ho sempre cercato di fare al meglio il mio lavoro, con onestà. Poteva non accadere, ci vuole anche un po’ di fortuna. Villanova non mi va stretta. Ci sono cresciuto, ci torno spesso. Me la porto dietro. È il posto da dove vengo.
Come direbbe Sergio Endrigo 'c’è gente che si perde per le strade del mondo…', io mi sento a casa a Siviglia, a Roma, in Sudamerica, dipende dalle persone che abitano i posti, è un fatto di mentalità. Bisogna smetterla, combattere, questa specie di sindrome di inferiorità. La Tiburtina è una metropoli con potenzialità enormi. Spesso Roma si rivela molto più provinciale.
Il racconto di quei luoghi, delle persone che ci vivono, è la cosa che sento più vicina del mondo di Zerocalcare, che conosco meglio. Soprattutto l’assenza di retorica e vittimismo con cui finalmente viene raccontata la periferia".
I supereroi sono le persone comuni
Fare film tratti da libri e/o graphic novel è sempre un po' complicato, ma oltre ad alcune critiche ci sono stati molti consensi. Cosa nel film pensi di aver riportato più fedelmente del fumetto di Rech e cosa invece senti più tuo?
"È complicato fare film. Non c’è una ricetta o un brevetto. Ogni volta è a sé. Si sbagliano i film. A me diverte il paragone con gli adattamenti americani, significa che il film c’è, che viene visto come se fosse un film della Marvel.
Tra l’altro questa è una graphic novel molto particolare, non ci sono supereroi. I supereroi sono le persone comuni. Questo è un piccolo film indipendente, già andare a un festival così importante con una commedia è un onore. Ben vengano le critiche, il film può non piacere, ci mancherebbe. Il problema è un altro: non hanno fatto critiche. Se vogliamo considerare il Cinema un’industria seria, tutte le parti in causa devono fare il proprio lavoro affinché questo avvenga. Alcuni critici devono alzare il livello e non limitarsi a fare articoli di colore. Ho cercato di rendere nel modo più rispettoso possibile l’immaginario di Zerocalcare, di rendere le atmosfere senza scimmiottarlo, poi è inevitabile che è tutto filtrato attraverso il mio sguardo".
La generazione che racconti nel tuo film è probabilmente anche la tua. Come spesso accade nella commedia italiana si ride, ma non mancano gli spunti di riflessione. Quale concetto speri possa arrivare ai ragazzi "diversamente giovani" che guarderanno il tuo film?
"Sono di qualche anno più grande. La crisi lavorativa che viene raccontata io l’ho presa di striscio. Mi spaventano i film generazionali, perché non tengono conto delle persone. C’è una cosa che cito spesso che diceva il grande Leo Benvenuti: “Ogni fiume è un po’ Po”, di non considerare mai la gente come una folla indistinta ma come un insieme di singole persone. Questa cosa cerco di tenerla sempre bene a mente. Non sono ragazzi. Vanno per i 30.
Dieci anni fa sarebbero stati uomini in carriera con una casa e una famiglia. Oggi sono uomini intrappolati, costretti, nei vestiti da ragazzi. Sbalzati fuori dai cicli produttivi. Bisogna ricominciare con politiche dal basso, con la tutela del lavoro e dei diritti fondamentali".
Panatta? Ha un altro passo: è una questione di testa
Passiamo dietro le quinte: tra i vari attori del cast con chi pensi di aver trovato maggiore sintonia? Chi invece ti ha stupito più di altri?
"Abbiamo legato tutti molto, il film è stato un viaggio intenso e pazzesco. Senza l’apporto degli attori sarebbe stato impossibile farlo".
...e come è stato dirigere il DEB Panatta?
"Molto divertente. Ha un altro passo. È una questione di testa.
Ci nasci campione. Ha una facilità nel fare le cose e una leggerezza che gli invidio molto".
Dopo la cosiddetta gavetta questo è il tuo primo lungometraggio e viene da chiedersi se stai già lavorando a qualcos'altro. Se ti capitasse l'occasione faresti altri film tratti dai fumetti?
"Questo è il mio primo film. Ho un po’ di arretrati nel cassetto. Mi piacerebbe fare una serie. Ho un paio di sceneggiature che mi piacerebbe seguire senza curarne la regia. Un piccolo horror scritto con Tiziana Triana (da Campolimpido) e un film sul calcio. Nel frattempo ho appena finito di seguire il primo film di Phaim Bhuiyan tutto girato a Torpignattara e sto seguendo un altro esordio Il Regno di Francesco Fanuele. Fumetti. Amo Baru e Burchielli è un genio e poi gli americani Aaron, Brubaker, Azzarello".