Francesca Monfardini ha appena 18 anni, ma il libro l'ha scritto ancora da minorenne: con "Ciò che un sorriso non può dire" per Sovera edizioni di Roma (2018), una nuova e giovanissima scrittrice si affaccia brillantemente nel panorama nazionale letterario. Un libro non facile, colmo di bellezza interiore e persino fiabesca nonostante un realismo perturbante, bullismo incluso. Non caso, spiccano evocazioni nella scrittura forse oggi insolite per la giovane ma, suo malgrado, fin troppo matura autrice: da David Bowie a Marinetti e persino a Nietzsche.

Nostra intervista esclusiva per Blasting News.

Generazione 3.0

D - Francesca, un originale libro generazionale, a tratti molto struggente, colmo anche di una sorta di destino infausto, ma anche di forza quasi innata, attraverso la differenza dell'intelligenza, sembra, in quest'epoca, spesso non frequente nelle nuove generazioni?

R - Per le nuove generazioni è difficile poter affrontare i problemi che la vita ci pone davanti. La tecnologia per esempio è un’arma a doppio taglio; se usata in modo corretto può essere una grande risorsa, in caso contrario può portare al lento annientamento dell’individuo. Non ci rendiamo conto che dietro uno schermo c’è una persona che prova sentimenti, per questo spesso non facciamo caso alle parole che pronunciamo.

Nella maggior parte dei casi forse l’adolescente crede che non esista alcuna via di uscita, in altri invece viene fuori la parte resiliente dell’uomo. In fisica la resilienza è la capacità di un materiale di resistere a un urto assorbendo energia. Ecco forse è proprio questa la capacità che manca. Tutti hanno la forza e l’intelligenza per reagire, cambia solo il fatto di avere qualcuno vicino oppure no.

Perché alla fine è vero: l’uomo non può salvarsi da solo.

Il bullismo del nostro tempo

D - Francesca, il bullismo - noto fenomeno generazionale (anche se purtroppo sempre esistito) è anche in primo piano: per troppo tempo tollerato - con omertà spesso anche istituzionali e scolastiche nei decenni scorsi?

R - Le prese in giro e l’approfittarsi delle persone deboli non è un fenomeno dell’ultimo secolo.

Nella società moderna abbiamo etichettato questo comportamento con la parola bullismo. Pensiamo all’imperatore Claudio che per i suoi difetti fisici veniva deriso e anche dopo la sua morte non riuscì a trovare riparo dalle canzonature. Ci basti pensare all’opera intitolata “La Zucchificazione”. Questo fenomeno è stato per molto tempo tollerato, rimanendo nella profonda oscurità: forse le istituzioni non avevano il tempo di dedicarsi a noi giovani. Per obbligare le istituzioni a guardare, ascoltare e parlare c’è bisogno di un episodio che scateni nell’opinione pubblica forti reazioni. E questo avvenne alla fine del 1900 in Norvegia con il suicidio di tre ragazzi di età compresa tra i dieci e i 14 anni.