Quando il peso dei debiti diventa insostenibile rispetto ai redditi qualunque soggetto dotato di normale buonsenso fa due cose: riduce le spese e vende i beni mobili e immobili di cui dispone. Poi cerca anche di aumentare i redditi, magari investendo parte delle risorse recuperate in nuove attività o valorizzando le residue proprietà. Se il soggetto è uno Stato l'operazione è allo stesso tempo più facile, perché è lo Stato stesso che fissa le regole e può, come fa già ampiamente, fare le eccezioni che ritiene più opportune, più difficile, perché uno Stato democratico deve trovare i necessari supporti politici per attivare iniziative straordinarie come quella di cui stiamo per parlare. Mettiamo da parte la riduzione delle spese, di cui s'è già detto tanto, e consideriamo la vendita dei beni. Ma facciamo prima due considerazioni basilari e valide in generale, chiunque sia il proprietario di beni, specialmente di valore storico e artistico (tutti beni pubblici sono vincolati per legge).

1.

un bene, di qualunque genere, non è pubblico perché è di proprietà di un ente pubblico, ma è pubblico perché è aperto a tutti quindi, ad esempio, un museo pubblico chiuso, cessa di essere pubblico quanto alla sua funzione e alla sua ragion d'essere.

2. conservare la proprietà di un bene di valore senza assicurare la sua conservazione significa tradire la responsabilità che è propria di ogni proprietario verso la storia e la collettività e, nel caso dello Stato e degli enti pubblici, tradire una loro funzione essenziale.

Allora, dal momento che i beni pubblici, anche di valore storico e artistico, non possono essere adeguatamente mantenuti, vanno venduti, per assicurare la loro conservazione, per incassare risorse da destinare alla riduzione del debito pubblico e, anche, per dar adito a nuove attività di accoglienza, ricettività o altro.

Questa non è un'idea nuova - già nel 1864 il Parlamento del Regno d'Italia approvava una legge su una convenzione tra il ministero delle finanze e una società anonima incaricata della vendita dei beni demaniali - ed è stata ripresa in continuazione, ma sempre con scarso costrutto, perché in questi 150 anni, e soprattutto negli anni della repubblica, ci siamo incartati molto.

Nessuna persona sana di mente, specialmente straniera, comprerebbe un bene pubblico senza sapere se può regolarmente - escludendo intrallazzi vari - fare un investimento profittevole nel modo e nel tempo che sembra più adeguato, giacché i vincoli esistenti sono troppi, nei vari livelli politici e amministrativi, e spesso sono del tutto soggettivi.

Il nodo di gordio va tagliato! Se vogliamo che la vendita dei beni pubblici prosperi, anche coinvolgendo investitori esteri che vedono meglio di noi tutte le enormi potenzialità dell'Italia, dobbiamo dire che gli acquirenti dei beni pubblici sono autorizzati a fare tutto quello che vogliono, anche come destinazione d'uso, nel rispetto dei luoghi e del tempo, purché il bene resti aperto al pubblico.