I dati diffusi oggi dall'Istat sull'occupazione nel mese di marzo, il primo dall'entrata in vigore del Jobs Act, sono a dir poco sconfortanti. La disoccupazione è infatti cresciuta, rispetto al mese precedente, dello 0,2 percento, portandosi di nuovo al 13 percento, rimanendo tra i livelli più elevati dalle rivelazioni Istat. Su base mensile ci sono 52 mila disoccupati in più (+1,6 percento), mentre nei dodici mesi il numero dei disoccupati è cresciuto addirittura del 4,4 percento, pari a 138 mila persone in più, mentre il tasso di disoccupazione è cresciuto dello 0,5 percento.

Rimane preoccupante la condizione dei giovani: la disoccupazione giovanile è risalita oltre il 43 percento, il livello più alto dallo scorso mese di agosto. Il tasso di occupazione generale è dunque pari solo al 55,5 percento. Su base annua l'occupazione è in calo dello 0,3 percento, con 70 mila occupati in meno.

Eppure la Banca d'Italia vede rosa

Il cruccio, non solo di una famiglia, ma di una nazione, è che i propri figli abbiano un'occupazione, senza dubbio. Leggendo quanto scritto dalla Banca d'Italia in un Occasional Paper appena pubblicato, il Quantitative Easing da 60 miliardi al mese lanciato di recente dall'Eurosistema determinerà un impatto sul Pil pari allo 0,5 percento quest'anno e di circa 1,4 punti complessivi nel biennio 2015-2016. Secondo Palazzo Koch, in particolare, la politica monetaria espansiva varata dalla Bce dispensa conseguenze positive non solo sul fronte dei tassi di interesse, ma anche su quello delle aspettative e sul clima di fiducia di imprese e famiglie. La riduzione dei tassi a breve termine e dei rendimenti delle attività finanziarie acquistate dalla Bce - si legge nel documento - influenza la domanda aggregata anche attraverso molteplici canali indiretti. "Modifica i rendimenti delle altre attività finanziarie, riduce il costo e aumenta la disponibilità dei prestiti bancari, deprezza la valuta domestica e allenta le condizioni di finanziamento del settore pubblico ... L'eurozona, e con essa l'Italia, può far conto sul deprezzamento del tasso di cambio e sulla riduzione della spesa per interessi sul debito" (Dino Pesole, Il Qe vale 1,4% di Pil in un anno, Il Sole 24 Ore 30 aprile 2015, p. 8).

L'alleggerimento quantitativo lanciato dalla Banca Centrale Europea sta sicuramente avendo il merito, come ampiamente previsto, di comportare una svalutazione competitiva della moneta - che consente di rilanciare le esportazioni - ed una consistente riduzione dello spread sui titoli di Stato, che consentirebbe di ridurre il peso degli interessi da corrispondere sul debito pubblico, con conseguente abbattimento dello stesso. Ancora una volta le previsioni della Banca d'Italia sono però basate su pure e semplici proiezioni che rischiano di non tener pienamente conto della realtà. Innanzitutto, a pochissimo tempo dalle prime immissioni di liquidità ad opera dell'Eurosistema, gli effetti sullo spread e sul rendimento dei titoli di Stato, spesso addirittura negativo, lascia temere bolle speculative, che ad un certo punto dovranno fisiologicamente sgonfiarsi. Inoltre il Quantitative Easing all'europea non obbliga le banche beneficiarie dello scambio danaro-titoli a concedere nuova finanza all'economia reale (imprese e consumatori), ma si fonda sull'auspicio che il sistema bancario conceda nuovo credito. Cosa non scontata, che dipende da una serie di fattori, oltre alla valutazione del merito di credito ed ai rigidi vincoli di Basilea. Se la liquidità non passa dalla Bce all'economia reale tramite il circuito bancario non ci sarà vera e nuova domanda aggregata e l'economia (e con essa il Pil) ben difficilmente cresceranno.