“America first”, lo slogan che ha permesso a Donald Trump di vincere le elezioni presidenziali. Uno slogan che, nei fatti, si traduce in una linea isolazionista in politica e protezionista in economia: "La Cina va affrontata sotto il punto di vista commerciale – ha detto Trump - Il libero scambio ci ha rovinato. Loro portano ogni cosa nel nostro paese. Noi, invece, dobbiamo pagare".
Che effetti avrà, dunque, il programma “America first” della Presidenza Trump, nei rapporti internazionali - e, principalmente – quali saranno i suoi riflessi nelle principali economie industrializzate del pianeta (Cina, europa e Giappone)?
Trump ha dichiarato di voler applicare una tariffa del 45% alle merci importate dalla Cina e, contemporaneamente, di voler denunciare i trattati di libero scambio stretti dall’amministrazione Obama (Partenariato Trans-Pacifico-TPP e North American Free Trade Agreement-NAFTA) o in corso di stipulazione (TTIP con l’Europa). Ciò avrebbe due conseguenze: il mercato interno USA sarebbe precluso ai prodotti cinesi ma anche il mercato cinese sarebbe precluso alle merci USA (20% di tutto l’import cinese); inoltre, quando il neo-presidente eletto abolirà ufficialmente i trattati di libero scambio già denunciati, i paesi del Pacifico e del Nord America (Canada e Messico), anziché prodotti made in USA, compreranno, a minor costo, i prodotti made in China.
L’industria statunitense troverà sbocco nel mercato interno, ma i consumatori americani dovranno acquistare i prodotti a prezzi più alti di quelli di prima, fabbricati in Cina. Ciò comporterà, a medio termine, un rialzo dei tassi d’interesse, onde evitare una svalutazione del dollaro. A ciò si aggiungerà un ulteriore incremento del deficit USA (già al 160% del PIL), dovuto all’abbassamento delle tasse e all’indebitamento dello Stato per gli investimenti pubblici, entrambi promessi da Trump, in campagna elettorale.
Non si vede, all’orizzonte, quindi, questo decollo economico promesso e sbandierato da Trump, con le sue “trovate”.
Le conseguenze per l’economia cinese, dunque, dipenderanno dalla sua capacità di adattarsi al mutamento dei suoi partners commerciali. Di fronte alla probabile svalutazione del dollaro, a breve-medio termine, anche l’Europa sarà costretta a proseguire nel ridimensionamento del valore dell’euro e, di conseguenza, proseguirà la politica di Mario Draghi del QE (Quantitative Easing) e dei tassi bassi della BCE.
Archiviato il Ttip che, ormai, non volevano più nemmeno gli europei, non crediamo che si pervenga a una “guerra delle tariffe” USA-Europa, se non a una moderata imposizione che compensi l’eventuale diminuzione dei prezzi dei prodotti made in USA. L’export europeo verso gli Stati Uniti, tuttavia, sarà indubbiamente penalizzato. Tra tutti i partners, forse l’economia meno danneggiata sarà quella italiana, date le caratteristiche di qualità del suo export, sul quale la concorrenza dei prezzi ha meno effetto; tutto dipenderà dalla capacità di acquisto dei prodotti “di lusso” da parte del cliente statunitense appartenente alle classi sociali benestanti.
L’Europa, tuttavia, reagirà più in ritardo alla “Trumpnomics”, in quanto – sicuramente – dovrà attendere i risultati delle Presidenziali in Francia e delle elezioni politiche in Germania.
Ogni decisione in proposito, pertanto, è rimandata alla fine del 2017, in coincidenza – guarda caso – con la scadenza del “fiscalcompact” (1° gennaio 2018). Nel frattempo, però, le borse europee proseguiranno nella loro discesa, già riscontrata nel presente anno.