I recenti sviluppi del caso Montepaschi, aggiungono complessità ad una situazione già difficile da seguire anche per gli addetti ai lavori. Posto che allo stato attuale non è possibile fare previsioni attendibili sul modo in cui evolverà la situazione, appare utile fornire un quadro sintetico di riepilogo che possa tornare utile ai risparmiatori e a tutti i cittadini interessati a una vicenda che potrebbe portare alla nazionalizzazione della banca più antica del mondo.

Il piano A e la soluzione di mercato

Nel mese di luglio scorso, la Banca Centrale Europea ha svolto una verifica ispettiva (stress test) sui principali istituti di credito soggetti alla sua vigilanza.

Al termine di questa verifica, per Montepaschi è emersa la necessità di un significativo intervento di rettifica delle previsioni di recupero sui crediti deteriorati (maggiori accantonamenti) e di rafforzamento patrimoniale.

L’istituto ha risposto prontamente varando un piano per la dismissione integrale delle sofferenze (NPL i crediti di più difficile esigibilità) connesso ad un aumento di capitale di circa 5 miliardi. Nei mesi successivi è diventato sempre meno realistica la prospettiva di riuscire a raccogliere dal mercato un importo di questo tipo, anche alla luce degli aumenti di capitale degli anni precedenti (circa 10 miliardi tra il 2011 e il 2015) di fatto ad oggi vanificati.

Un piano alternativo, con minore ricorso al mercato, era stato proposto da una cordata guidata da Corrado Passera, ma non è stato inizialmente preso in considerazione e, quando in ottobre poteva essere valutato, è stato poi ritirato dagli stessi proponenti che lamentavano la mancanza delle informazioni minime per la valutazione economico-finanziaria.

L’esito negativo del referendum costituzionale e la conseguente caduta del governo potrebbe influire sulla volontà degli investitori di sottoscrivere l’aumento, per questo Montepaschi aveva chiesto una proroga per l’operazione, che con ogni probabilità verrà negata.

Gli aggiornamenti più recenti su questa soluzione prevedono una riduzione dell’importo richiesto al mercato grazie alla conversione volontaria di obbligazioni subordinate e all’intervento di uno o più anchor investor (in trattativa il fondo sovrano del Quatar).

Il piano B e l’intervento dello stato

Nel caso la soluzione “di mercato” non vada in porto si apre la strada per l’intervento dello stato che dovrà avvenire nel rispetto delle normative sul Burden Sharing e sul Bail in: in sintesi affinché l’intervento dello stato sia ammissibili occorrerà che anche azionisti ed obbligazionisti subordinati sopportino in misura proporzionale gli oneri di ricapitalizzazione.

L’ipotesi peggiore è quella della risoluzione dell’istituto e potrebbe arrivare in teoria a coinvolgere oltre agli azionisti e obbligazionisti subordinati anche gli altri obbligazionisti e i depositi per giacenze eccedenti i 100 mila euro. Allo stato questo tipo di eventualità appare tuttavia poco probabile.

L'incarico a gentiloni per la formazione rapida di un governo dovrebbe essere considerata positivamente dagli investitori.

Cosa succede ai risparmiatori?

Se va in porto il piano A, i detentori di azioni verranno drasticamente diluiti, ma potrebbero conservare una frazione del valore dei propri titoli (che peraltro hanno perso in borsa oltre il 90% negli ultimi mesi), mentre per obbligazionisti la situazione rimarrà invariata (per molti titoli subordinati la valutazione di mercato è al 50% rispetto all’emissione)

In caso di intervento dello stato, nell’ordine, verranno certamente azzerate le azioni, convertite in azioni le obbligazioni subordinate (al valore di mercato) secondo la logica del burden sharing, mentre gli altri obbligazionisti e i fondi eccedenti i 100 mila euro sui depositi in conto corrente verranno intaccati solo nell’ipotesi più grave di risoluzione (bail in) che al momento appare improbabile.