Nell’ambito del ciclo di interviste BlastingTalks, approfondiamo l’impatto della crisi causata dal coronavirus sul settore metalmeccanico, intervistando Alberto Dal Poz, presidente di Federmeccanica, la federazione sindacale dell'industria metalmeccanica italiana.

Iniziamo facendo il punto della situazione rispetto al dilagare dell’emergenza sanitaria dovuta al coronavirus e alla conseguente crisi economica. Qual è la situazione vissuta dalle aziende del settore della metalmeccanica?

Partiamo da due numeri oggettivi. Rispetto al periodo gennaio - febbraio 2020, ovvero i due mesi precedenti la fase di lockdown, nel mese di aprile i valori di produzione metalmeccanica sono diminuiti del 54,7%.

Ci sono settori molto più toccati come autoveicoli o rimorchi e settori toccati meno come le apparecchiature di precisione, perché lì dentro c’è tutto l’elettromedicale che è sceso un pochino, ma enormemente meno rispetto ai settori più toccati. Si pensi a quello degli autoveicoli che ha segnato un -86,1% o alla metallurgia che ha subito un -46,4%. Abbiamo consumato nel solo mese di aprile l’intero monte ore di cassa integrazione che tutta l’industria metalmeccanica aveva consumato nel 2019 e quindi questo dà l’idea della profondità di questa crisi. D’altra parte non si può essere stupiti perché il mese di aprile è stato caratterizzato dal -97% di vendite di automobili con il lockdown e i concessionari chiusi.

Mal comune mezzo gaudio, Germania, Francia e Uk hanno prodotto numeri simili.

Il lockdown ha influito pesantemente sull’economia dell’Italia: quali sono stati gli effetti reali per i vostri iscritti e quali sono le principali sfide che gli imprenditori del settore si trovano oggi ad affrontare?

Sono stati toccati un po’ tutti i settori, ma in modo anche violento quelli che avevano trovato dei rimedi durante il periodo 2008-2012, cioè nella precedente grande crisi.

Questi rimedi avevano permesso all’epoca di sopportare il periodo difficile. Il primo di questi strumenti è l’internazionalizzazione, perché in quel periodo soffriva meno chi era già internazionalizzato, con un export attorno al 20-35%. Oggi anche le aziende con forte o fortissima propensione all’export stanno soffrendo e soffriranno ancora per qualche mese lo stallo prolungato nella vendita dei mezzi di trasporto.

L’altro mezzo di contrasto era lo strumento della diversificazione. Noi operiamo in Italia dove c’è un ruolo ancora importante di FCA, quindi si cerca di differenziare la base clienti e di vendere in altri mercati. Ma questa è una crisi che ha colpito praticamente tutti nella stessa misura, perché si è bloccata FCA ma si sono bloccate anche Volkswagen, BMW, Peugeot e le altre case automobilistiche. Quindi anche coloro che avevano differenziato il loro set di clienti e di mercati hanno perso moltissimo in questa fase. Come estremo si può pensare al settore dell’aeronautica, dove un’azienda leader come Lufthansa ha chiesto nove miliardi di euro di aiuti per non fallire. Quindi ci troviamo davvero in una situazione complessa, pervasiva e imprevedibile.

E per quanto concerne i provvedimenti intrapresi e ancora allo studio da parte del governo per fare fronte alla crisi, in che modo pensate sia necessario indirizzare le misure per garantire le migliori possibilità di ripartenza?

Per prima cosa chiediamo di porre attenzione alla velocità di attuazione nella fornitura di liquidità alle imprese, soprattutto nella parte più bassa della filiera. Non è solo quanto si dà, ma quanto velocemente si garantisce il sostegno alle imprese. Poi c’è il tema della cassa integrazione. Quasi tutte le aziende che abbiamo sentito hanno abbondantemente anticipato ai lavoratori la cassa integrazione, ma purtroppo così non è per tutti. Già è un taglio importante al netto di ciò che percepisce il lavoratore, ma se poi bisogna attendere settimane o mesi il problema diventa esistenziale.

Quindi la velocità con cui si danno queste misure è forse la variabile principale in questa fase.

Rispetto invece agli incentivi?

Il secondo tema riguarda proprio una qualche forma che comincia a prendere piede di sostegno alla domanda. Sugli incentivi alle biciclette o ai monopattini elettrici... bellissimi, evviva, ma si stimola perlopiù una produzione fatta in Cina. Mentre invece l’incentivo sull’acquisto di autovetture Euro 6, ibride o elettriche ritengo che sia un buon punto di partenza. Francamente anche quello che è stato proposto in Francia o Germania sta partendo, per cui l’auspicio è che queste misure di sostegno possano impattare su tutta la filiera, ricordando il fatto che l’Italia è il primo sub fornitore per la produzione di macchine tedesche.

Dal punto di vista organizzativo, questa crisi ha imposto un profondo ripensamento delle logiche lavorative. Quali sono i cambiamenti destinati a consolidarsi nel tempo nonostante il graduale ritorno alla normalità?

Tutti hanno parlato di smart working. Noi siamo convinti che queste settimane e questi mesi abbiano portato ad una esplosione dei costi per la sicurezza in azienda. Si pensi a mascherine, dispositivi di protezione o di qualsiasi natura, distanziamento, piuttosto che pulizie straordinarie e così via. Non voglio nemmeno entrare nel tema della malattia o delle perdite che si sono verificate, perché è un dato eccessivamente gravoso da commentare. Quello che rimarrà è un peso violento nei bilanci rispetto ai costi sostenuti.

E al di là dei costi, il tema che stiamo affrontando riguarda in che modo strumenti come il lavoro a distanza possano effettivamente essere utilizzati in modo massiccio nelle imprese. E se sì, con quale vantaggio disponibile in termine di efficienza e produttività.

Qual è l’aspetto più critico che rilevate al riguardo?

Si ascoltano dei pareri estremamente discordi. Ci sono aziende che ancora oggi al 10 luglio hanno una percentuale importante di lavoratori impegnati da casa e ci sono aziende come nel comparto manifatturiero che hanno da metà aprile gradualmente e in accordo con i sindacati ricominciato a lavorare in modo massiccio, mantenendo la sicurezza. Allora ci sarà pure un compromesso da questo punto di vista.

In che modo pensa sarà possibile riuscire a trovarlo?

Si dovrà partire identificando le migliori pratiche per poterle trasformare in una specie di strumento formativo per tutte le aziende. Stiamo cercando di condividere le esperienze delle aziende più grandi e strutturate con le aziende più piccole. Proprio perché ci aspettiamo dei grandi cambiamenti da questo punto di vista. D’altra parte serve anche a noi come stimolo verso il governo, perché in questi momenti è emersa in tutta la sua criticità la mancanza di un collegamento sufficientemente veloce alla rete nel Paese. Allora, la speranza è che questo sia anche da stimolo nei confronti di chi dovrà decidere sul piano di adeguamenti infrastrutturali del nostro Paese, perché va bene pensare a strade, autostrade, ferrovie e aeroporti, ma per essere davvero collegati al mondo abbiamo bisogno di una rete efficiente e all’avanguardia.

Secondo lei cosa possiamo imparare da quanto abbiamo vissuto e quali fattori possiamo cogliere dall’emergenza per diventare più resilienti in futuro?

Io sono il metalmeccanico vero, ma sono anche un ingegnere. La resilienza è una resistenza meccanica a una situazione caratterizzata da forti dinamiche. È esattamente quello che sarà questa crisi. Non sarà una crisi statica. Non sarà un singolo fatto, ma saranno un certo numero di fatti che ci troveremo a vivere. Non sarà un lockdown di sei settimane e poi il mondo tornerà alla normalità. Non sarà così perché ci potranno essere nuove situazioni di tensione e di chiusure locali in Paesi che sono nostri mercati e che sono nostri fornitori. Ci potranno essere improvvisamente difficoltà nel far circolare merci e persone.

Quindi anche il concetto di globalizzazione subirà un forte cambiamento. La possibilità di avere in tempi ragionevoli merci e persone che arrivano dall’altra parte del mondo per intervenire sui macchinari od offrire servizi non sarà necessariamente così scontata.

Tutto ciò con quali conseguenze?

Come è emerso durante le settimane del lockdown, tutte le filiere che abbiamo intorno a noi appariranno per quanto effettivamente complesse sono, perché si basano sulla possibilità di trasferimenti e di spostamenti di beni e servizi che non necessariamente saranno disponibili per un medio tempo o per qualche anno. E quindi dobbiamo essere pronti a sfruttare le occasioni che ci saranno in una nuova forma di localizzazione, dove l’Italia comprerà più in Italia e l’Europa comprerà più in Europa e meno dalla Cina.

Ma avverrà anche il contrario, proprio perché gli ultimi periodi indubbiamente ci hanno fatto vedere che mentre l’Europa si sta riprendendo, e l’Italia in questo senso è stato un grande esempio, il Sud America e gli Usa sono ancora in grande crisi. Così, gli effetti a lungo termine faremo fatica ad identificarli sulle filiere, rendendole meno globali in modo diverso. Si pensi a cos’è successo quando hanno incominciato negli scorsi mesi a bloccarsi i primi distretti industriali in Cina. Si era spostata una grandissima fonte di fornitura spinta solamente dal basso costo e questo ha creato una profonda crisi prima di tutto negli Stati Uniti, con situazioni incredibilmente gravi per via delle aziende fornitrici.

Si immagini quindi questo cosa voleva dire per intere filiere e industrie che avevano gli ordini dei consumatori, ma non potevano evaderli. Tutto ciò significa addirittura allungare il periodo di crisi. In conclusione, dobbiamo prepararci a dei cambiamenti importanti.