Canale 5 ieri sera poco dopo le 21,00: "caro presidente". Una trasmissione dedicata al genetliaco di berlusconi. Resisto 20 secondi. Poi vado alla ricerca di qualcosa e m'imbatto ne "la grande bellezza" di Paolo Sorrentino, su una delle reti mediaset. Una delle poche cose che approvo dell'attività editoriale del "cavaliere". Anche se ho sempre avuto il dubbio che lui l'abbia mai visto. Il film è talmente zuppo di cafonate d'alta società rinsecchita. Scherzi del palinsesto e paradossi di un editore, distratto o compiaciuto. Così, forse per contrappasso a questi pensieri, forse perchè rimane un film commovente nella sua ricercata leggerezza, lo rivedo per l'ennesima volta.

Una platea divisa tra "sublime profondità" e "stucchevole pappata"

La critica è spesso spietata. E' il suo mestiere.Tuttavia, sul testo cinematografico di Sorrentino - di tre anni fa ma ormai datato tanto da essere diventato un "classico" contemporaneo - il cicaleggio suona di conformismo. Un conformismo di "maniera" di certa critica che, tentando di apparire colta, si erge a protagonista e occupa la scena con nozionismi citazionisti da tamarri ripuliti. Ma non manca la critica di vuoti arroganti incapaci di osservare, che dileggiano il testo sulla scia delle loro esistenze superficiali intrise di sentimenti da fotoromanzo di quart'ordine. Insomma, due egoismi. Ma qualcuno ha ragione?

Il piacere del racconto e la passione per la nostalgia

Non quei due. Chi critica il film perchè il racconto è ellittico, cioè frammentato e privato dell'usuale innesto delle scene in una continuità di causa-effetto, ha ragione. Non c'è una vera trama ed il testo appare stiracchiato all'inverosimile. Può non piacere questo modo di narrare.

Ed è in buona compagnia. Agli inizi del Novecento Virginia Woolf scrisse, in una delle lettere che compongono il suo imponente epistolario, quanto la lettura dell'Ulisse di Joyce fosse stata sofferta fino allo strazio. Eppure, esiste un'altra modalità di visione. In quest'altra occorre abbandonare il concetto di causa-effetto, smettere di cercare il racconto di una storia ma seguire la narrazione di una coscienza.

Il protagonista è un uomo di talento, un'anima sensibile che ha consegnato il tempo alla leggerezza, alla disillusione. Ormai sessantenne, registra il ritmo stravagante dell'esistere scontando il vuoto di una ricerca di senso mai veramente abbandonata. Un bravo Carlo Verdone recita: "Che cosa avete contro la nostalgia? E' l'unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro". Ecco, questo è il punto. Tutto il testo di Sorrentino è un inno alla nostalgia vissuto attraverso lo sguardo trasognato e malinconico di Gep Gambardella. Nell'incipit un turista sorridente tenta di catturare la bellezza di Roma e muore di colpo. Il tempo è un attimo. Il tempo è una vita. Ogni momento vissuto è già nostalgia.

L'esistenza è perenne nostalgia. Nella Roma barocca di Bernini e Borromini, l'illusione sontuosa fa da sfondo alla più dissacrante verità: il nulla. Come narrare il nulla? Sorrentino c'è riuscito. Ed io mi commuovo ogni volta.

Narrazione postmoderna

Esiste dunque un modo di narrare nel quale la libertà d'espressione dilaga nella struttura sintattica del testo. Sorrentino segna il tempo del racconto per sequenze che diventano episodi compiuti. Si chiama poesia lirica ed è uno schema narrativo che affonda le radici nel XIII secolo, risalendo la penisola dal regno di Sicilia di Federico II fino alla Firenze di Guinizzelli e Guittone. La poesia non è mai finita: mentre il romanzo prendeva il sopravvento nei gusti del pubblico, si è trasfigurata nel linguaggio cinematografico. Ogni tanto, in tutti noi che amiamo il romanzo, sorge l'esigenza di fare un breve, intenso viaggio nel fondo dell'anima.