Erano le elezioni politiche del 1996 quando Nanni Moretti, nel film Aprile, uscito nel 1998, invitava un Massimo #D’Alema soverchiato dalle parole di Silvio Berlusconi a dire “una cosa di sinistra”. A distanza di 20 anni adesso è D’Alema che rimprovera, in maniera anche più dura, il presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico. Matteo Renzi, per lui, non solo non dice nulla, o quasi, di sinistra, ma non rappresenta più l’identità che un tempo fu della sinistra. Un rimprovero condiviso, sebbene con toni meno aspri, da quella minoranza dem a cui Roberto Speranza ha dato voce ieri rispondendo al premier in merito ai cambiamenti futuri dell’Italicum.

“La tua proposta - ha detto Speranza - non è sufficiente”.

Il Pd e gli scissionisti che gettano acqua sul fuoco

Mentre aleggia lo spettro della scissione in casa Pd, i potenziali scissionisti gettano acqua sul fuoco. A cominciare da Pierluigi Bersani che tiene a precisare che ci vorrebbe l’esercito per cacciarlo via da quella che lui considera casa sua. Comunque andrà a finire, di sicuro Matteo Renzi uscirà sconfitto da questo accerchiamento. La sua leadership, infatti, nasce nel solco della personalizzazione carismatica della guida di un partito o di una coalizione che ha caratterizzato la Seconda Repubblica fino a transitare nell’attuale. Non che le voci dissonanti o la contestazione contro il capo allora fossero impossibili.

Chi non ricorda, ad esempio, lo scontro nel centrodestra tra Berlusconi e Gianfranco Fini con il suo ormai proverbiale “Che fai, mi cacci?”.

Sì e no quasi pari: una sconfitta per Renzi

Si trattava di eccezioni, rispetto a una situazione monolitica nella quale il dissenso trovava poco spazio. E, infatti, poco o nulla incidevano anche in termini elettorali.

Così non è nel Pd guidato oggi da Matteo Renzi. Questo vuol dire che, facendo un rapido conto di quanti sosterranno le ragioni del sì al Referendum costituzionale, nel novero bisogna mettere, insieme ai tanti nemici esterni, molti nemici interni. Ne consegue che al momento sostenitori e detrattori della Riforma quasi si equivalgono.

La vittoria del sì, se avverrà, sarà di misura. La sconfitta, idem. Il 5 dicembre, all’indomani del voto sul Referendum, non ci sarà un’indicazione plebiscitaria né in un senso né in un altro. Il che coinciderà comunque con uno smacco per Matteo Renzi e per la sua leadership ormai azzoppata.