Per Gianfranco Fini si è chiesto il rinvio a giudizio con l'accusa di riciclaggio. Premessa di questo articolo è che non è la questione in sé ad essere rilevante, quanto il principio giuridico che vi sta dietro. Il reato di riciclaggio è particolarmente odioso, tanto più se viene commesso da un uomo politico pubblico. Il punto però è che molti non sanno cosa sia in realtà una richiesta di rinvio a giudizio, e dai tempi di Enzo Tortora sbattere il mostro in prima pagina è molto più facile che togliercelo.
Il rinvio a giudizio è una richiesta, non una condanna
Nel nostro ordinamento giuridico, dire che per qualcuno è stato chiesto il rinvio a giudizio significa esattamente ciò che la lingua italiana specifica. Si tratta appunto di qualcosa che viene 'chiesto', e non è detto che la domanda venga soddisfatta. In particolare la richiesta di rinvio a giudizio trova il suo riferimento normativo negli articoli 416 e seguenti del codice di procedura penale. In questo caso, un pubblico ministero, che nel caso specifico di Gianfranco Fini si chiama Barbara Sargenti, ritiene che le indagini abbiano prodotto prove a sufficienza per processare l'indagato. E pertanto fa una richiesta al cosiddetto GUP, cioè il Giudice per l'Udienza Preliminare.
È lui che di fatto decide se procedere o meno, stabilendo appunto il rinvio a giudizio vero e proprio o al contrario il 'non luogo a procedere'. Ma è proprio qui che si insinua il rischio.
Colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma non per la tv
È esattamente questo che si corre nello sbandierare in televisione e su tutti i quotidiani una richiesta di rinvio.
Per un'associazione mentale che i media conoscono (e sfruttano) molto bene, chi va in televisione o sui giornali esiste, al di là di ciò che poi lo riguarda davvero. Poniamo il caso che Fini venga prosciolto da ogni accusa, oppure che si decida di processarlo e che ottenga un verdetto di non colpevolezza. Quanti di noi lo sapranno, o lo terranno a mente, e quanti invece saranno oramai condizionati a credere che, se è stato indagato, qualcosa di 'losco' lo deve aver fatto, altrimenti non sarebbe finito sotto inchiesta?
Ci ricordiamo del caso Tortora?
Il caso di Enzo Tortora, quando un'inchiesta giudiziaria sbagliata può uccidere
Ricordiamo tutti il noto presentatore italiano Enzo Tortora, condannato per un clamoroso errore giudiziario? Era il 17 giugno del 1983 quando Tortora, sulla base di accuse false, fu imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Scontò prima diversi mesi di reclusione, poi venne scarcerato, poi di nuovo condannato a 10 anni. Solo 3 anni dopo venne scagionato da tutte le accuse, ma oramai per lui era troppo tardi. Morì poco dopo, molto probabilmente a causa delle profonde prostrazioni che era stato costretto a subire, così si è detto.
I processi in tv e il sospetto che resterà per sempre
In questi giorni non si fa che parlare delle accuse a Fini. Ripetiamo che non è questo il punto. Il punto è il pericolo di svolgere processi sui media, prima ancora che questi vengano celebrati nelle aule di giustizia. O prima ancora, come in questo caso, di sapere se un processo ci sarà oppure no. Il sospetto su di lui resterà per sempre. 'Avrà fatto certamente qualcosa, altrimenti non lo avrebbero indagato'. E invece no. Perché le accuse possono cadere, i reati possono essere inesistenti, i pubblici ministeri possono sbagliare. ma alla fine dei conti l'unico che ci rimette, qualora sia veramente innocente, si intende, è l'imputato, marchiato a vita da un'accusa infamante.
Ricordiamoci sempre di Tortora e che la legge, a volte, purtroppo, non coincide con verità e giustizia.
Se vuoi rimanere sempre aggiornato sugli argomenti che ti stanno a cuore e ricevere tutti gli approfondimenti e le news di Criminologia, iscriviti al canale