Potremmo definirle “Alfie e i suoi fratelli”: si tratta di persone che vivono situazioni analoghe a quelle del bambino di Liverpool, Alfie Evans, morto qualche settimana fa nell’ospedale in cui era ricoverato, che subiscono protocolli sanitari nati per garantire il rispetto della libertà del paziente di scegliere o rifiutare qualunque cura sanitaria (compresa l’idratazione e la nutrizione) e che si sono, in seguito, trasformati in strumenti per trasformare in prassi, spesso contro la volontà del malato o dei suoi stessi familiari, una sorta di “dovere di morire” da parte del paziente stesso e per di più per mano dell’ospedale che lo tiene in cura.

Tutto ciò perché la vita del soggetto che viene sottoposto a tali “trattamenti” è ritenuta non degna di essere vissuta o addirittura “futile”, come nel caso di Alfie, da tribunali o strutture ospedaliere, senza che in alcuni casi il paziente possa nemmeno ribellarsi.

I vari "casi Evans nel mondo"

Ci riferiamo non a semplici ragionamenti astratti ma a situazioni concrete (ce ne sono tanti, ne citeremo solo alcuni…) che hanno nome e cognome. Abbandonando il suolo britannico, un caso recente è costituito dal canadese Roger Foley di 42 anni, affetto da una malattia neurodegenerativa al quale il sistema sanitario canadese ha offerto come unica forma di assistenza medica gratuita il suicidio assistito, non considerando nemmeno l’ipotesi che un paziente possa avere voglia di vivere e lottare contro la sua malattia.

Foley si è ribellato con tutto se stesso a questa singolare proposta, pretendendo “l’assistenza a vivere” piuttosto che quella a morire. Ma per tutta risposta ha ricevuto un’assistenza domiciliare pessima, venendo ricoverato più volte a causa delle manovre maldestre di operatori sanitari impreparati che, spesso si addormentavano nel suo salotto, durante i loro turni.

Perciò Foley è arrivato a denunciare il sistema sanitario canadese, sapendo bene che basterebbe un’assistenza adeguata e degna di questo nome per alleviare in modo significativo le sue sofferenze.

Ma questo è proprio ciò che accade quando l’aiuto a morire è pericolosamente contemplato tra gli interventi di assistenza medico-sanitaria e, dunque, rientra paradossalmente tra le “cure” a cui un paziente ha diritto.

Diventando un servizio offerto dallo Stato, attraverso il sistema sanitario e un diritto garantito dalla legge, giocoforza il paziente, in condizioni di Salute già precarie, si troverà ad avere a che fare con un intero sistema che la pensa così, rendendo la sua lotta ancora più ardua perché dovrà svolgersi su più fronti. Pensiamo anche a ciò che sta accadendo in Olanda, dove la legge sull’eutanasia, già approvata da tempo, sta per estendere la casistica dei soggetti su cui verrà applicata, persino sugli anziani che considerano la loro vita finita non a causa di una malattia grave, ma spesso per semplici ragioni di solitudine. Si tratta di una proposta di legge recente che sta facendo discutere perché annovera tra le cause per le quali i soggetti vi possono ricorrere (tra l’altro parliamo di gente sana dal punto di vista fisico) il dolore di aver perso la persona amata e il conseguente stato di desolazione che li porterebbe a percepire la loro vita come priva di senso.

Persone alle quali, dunque, basterebbe un supporto psicologico o la semplice compagnia di altri essere umani per “guarire” da un normale stato di tristezza conseguente ad un lutto grave o ad una semplice condizione di solitudine. Ma è proprio questo il punto: da simili “protocolli” emerge un valore scarso, o nullo, attribuito alla vita umana che, di fronte a qualsivoglia difficoltà (sia di natura fisica che psichica), meriterebbe di essere troncata. Risulta quindi illusoria la motivazione con cui certe leggi di sapore eutanasico vengono approvate e cioè il garantire la “libertà di scelta” del paziente a ricevere o non ricevere le cure che ritiene più adeguate se l’unica soluzione che gli si offre, nel momento in cui avrebbe più bisogno di soccorso dal sistema medico sanitario e dallo Stato per uscire da una condizione di sofferenza sia fisica che psichica, è la morte.

Le DAT e le insidie nascoste

Lo stesso principio che invoca la libertà di cura del paziente è per di più contenuto anche nel nostro disegno di legge sulle DAT (Disposizioni Anticipiate di Trattamento) il cosiddetto “testamento biologico” in cui il soggetto (che avesse fatto in tempo a redigerlo) specificherebbe la sua volontà di essere mantenuto in vita o meno, nel caso in cui versasse in condizioni così gravi da non essere capace di intendere e di volere. Nell’articolo 32 di tale DDL si legge infatti che “nessuno può essere obbligato a ricevere un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e ciò comprende anche le cure fondamentali per vivere: idratazione e nutrizione che, di fatto, se negate (seppure per volontà stessa del soggetto) porterebbero di fatto alla sua morte, quindi diventa difficile non equiparare tali “disposizioni” approvate lo scorso dicembre dal nostro governo, all' eutanasia vera e propria che ugualmente alla morte conduce.

Per di più nel caso in cui il paziente si trovasse in coma o comunque in una condizione di scarsa coscienza e non avesse fatto in tempo a redigere il testamento biologico, la sua sorte sarebbe completamente nelle mani di un “rappresentante legale” che potrebbe anche scegliere il distacco dei supporti vitali, senza che il soggetto in questione possa esserne informato né tanto meno ribellarsi.

Ovviamente una legge che si basa su un articolo come quello succitato può dar vita alle interpretazioni più disparate a seconda dei casi estremamente vari ed eterogenei ai quali si ritrova ad essere applicata e non può che aprire uno scenario inquietante sul futuro e su eventuali “abusi” che potrebbero verificarsi, dato che di fatto non sussisterebbe più l’obbligo del medico a soccorrere e tentare di salvare sempre e comunque la vita del paziente con cui si trova ad avere a che fare.

Quindi, contrariamente a quanto è affermato nel DDL, verrebbe a rompersi, o almeno a sfilacciarsi, quel normale e basilare rapporto di fiducia tra medico e paziente, in vista del bene e della salute di quest’ultimo. A lampante dimostrazione di ciò, potremmo citare (uno fra tanti) il caso di Vincent Lambert, un uomo di 42 anni, francese, che a fine aprile ha rischiato ancora una volta di vedersi negato il trattamento vitale della nutrizione dal quale dipende in tutto e per tutto. Dieci anni fa ha subito un grave incidente stradale ed è in una condizione definita di “ipo-relazionalità” ovvero capisce tutto quello che gli accade intorno ma ha difficoltà a comunicare, è come se fosse prigioniero del suo stesso corpo.

Tuttora la sua vita è oggetto di una vera e propria contesa tra sua moglie Rachel che aveva chiesto che gli venisse negata la nutrizione assistita da cui dipende la sua vita e i suoi genitori che invocano il diritto di cura per il figlio, trattato invece, affermano, dal sistema sanitario come se fosse un criminale, degno della pena peggiore, quella di morte.

Dopo aver fatto ricorso più volte alla giustizia, i genitori di Lambert, a fine aprile, si sono sentiti dire dal medico curante della struttura ospedaliera di Reims in cui il paziente è ricoverato, il dottor Vincent Sanchez, che il paziente sarebbe semplicemente vittima di un’ “ostinazione irragionevole” (così è stato definito il diritto alla vita di Lambert affermato dai suoi genitori) e che quindi, se entro 10 giorni il tribunale di Reims non avesse dato ragione alla famiglia, essendo autorizzato dall’attuale legge sul fine vita, vigente in Francia, avrebbe sospeso i trattamenti sanitari che lo tengono in vita.

Tuttora attendiamo l’esito della sentenza.

Il comunicato dei vescovi di Liverpool

Ma una cosa sembra emergere in modo evidente da tutti questi casi: lo scarso valore attribuito alla vita umana e a tutto ciò che la fa sussistere. Pensiamo ad esempio, al modo in cui, attraverso un secco comunicato, si sono espressi persino i vescovi di Liverpool riguardo il caso di Alfie e la lotta disperata dei suoi genitori: difendendo, cioè, a sorpresa e inaspettatamente a spada tratta, l’operato dell’ospedale e invocando anch’essi “il miglior interesse” del bambino che in questo caso si identificherebbe non nel diritto ad essere curato per continuare a vivere, ma in quello ad essere, di fatto, ucciso. Un contenuto tanto più grave perché definito da una parte della gerarchia ecclesiastica che utilizza parole che tolgono ogni speranza.

Ed è proprio questo il punto: approvando provvedimenti simili che vedono la morte come unica soluzione, non si fa che levare il senso della speranza e quindi il senso stesso di ogni azione, verso cui indirizzare tutto ciò che si vive e si fa. La malattia fisica, dunque, verrebbe accompagnata, automaticamente, da un senso di smarrimento e di angoscia verso un’esistenza che comincia ad essere considerata solo relativamente degna di essere vissuta e che, nemmeno parte della Chiesa sarebbe più disposta a difendere.

Per questo, far luce su certe procedure mediche diffuse in parte dell’Europa e non solo, diventa oggi più necessario che mai per tornare a chiedersi se esse sono davvero per l’uomo, per il suo bene, se davvero rispecchiano lo spirito del giuramento di Ippocrate a cui i medici sono tenuti ad ispirarsi o se si sta andando incontro ad una concezione della vita umana e della professione medica che dovrebbe tutelarla, totalmente opposta che rischia di trasformare sempre più il medico nell’ aguzzino del suo paziente. Una trasformazione a cui presto potremmo assistere anche noi, durante i primi casi di applicazione della legge sulle DAT qui in Italia.