E’ notizia di un paio di giorni fa la nomina a Commissario Italiano dell’Unesco di Pasquale Zagaria, in arte Lino Banfi, annunciato dal Ministro del Lavoro Luigi di Maio durante un evento a tema “Reddito di Cittadinanza”, organizzato dal Movimento 5 Stelle. La nomina, come spesso succede nell’Italia dell’indignazione a comando, ha provocato uno sciorinare di articoli sarcastici e nemmeno troppo velatamente offensivi per il succitato attore. E, come accade sovente, una larghissima fetta di coloro che condividevano “meme” e sketch comici a riguardo, probabilmente poco coscienti riguardo il peso specifico dei propri “traguardi personali”, non erano propriamente al corrente di ciò che stava accadendo.

Tanto rumore per nulla

L’UNESCO (acronimo di United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) è una agenzia creata dalle Nazioni Unite allo scopo di promuovere la pace ed il rispetto fra i popoli attraverso l’istruzione, la scienza, la cultura, la comunicazione e l’informazione. La Commissione Italiana per l’UNESCO è stata istituita nel 1950, la quale opera attraverso un’assemblea che fissa le strategie generali della Commissione, inquadrate sempre secondo i canoni prestabiliti dall’atto costitutivo dell’agenzia. Se formalmente i compiti della Commissione sono importantissimi e fondamentali, la realtà dei fatti potrebbe non essere così “edificante” come si creda, almeno secondo le parole di Pupi Avati, commissario “uscente”, che parla di una nomina dai compiti "poco chiari" e che fa parte di una commissione che non è mai stata di fatto convocata negli ultimi anni.

Quindi, della serie “tanto rumore per nulla

L'arte dei laureati

Nonostante sia innegabile che, nel nostro vasto panorama culturale, una scelta “assoluta” di rappresentanza sia una questione delicata e complessa, Lino Banfi non è una scelta così “malvagia” come l’ironia di taluni vogliono far credere. Iniziamo da alcuni “appunti oggettivi”: la tanto vituperata “inadeguatezza” formale del nostro Pasquale Zagaria.

Molti ignorano il fatto che il nostro buon Banfi sia formalmente laureato, con una Laurea Honoris Causa in Scienze della Comunicazione ottenuta nel 2008. E, per esser insigniti di tale onorificenza, bisogna aver compiuto qualcosa di “straordinario” e di pubblicamente e popolarmente ravvisabile. Insomma, qualcosa di non facile, di non comune, di non esattamente ordinario e mediocre.

Della serie, di professori di Storia dell’Arte ce ne sono tanti, ma di Lino Banfi ce n’è solo uno. Della serie “due”, recitare al fianco di Totò o sotto l’egida di Dino Risi non è esattamente equiparabile al “Dare l’esamino di Cinema dopo aver studiato sul librino nella propria camerina”.

Se il titolo di studio ottenuto per merito non bastasse, il “Nonno d’Italia” può vantare un palmares invidiabile di onorificenze e premi di un certo livello ed attestarsi tranquillamente fra uno degli attori italiani viventi più conosciuti ed apprezzati al mondo. E’ stato insignito di due riconoscimenti ufficiali al merito (nel 1994 e nel 1998) dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e, sino ad oggi, accumulando al contempo decine di premi ottenuti in manifestazioni nazionali ed internazionali.

Se questo ancora non fosse sufficiente, possiamo annoverare nella sua lunghissima e densa carriera filmografica, collaborazioni di altissimi livello con personaggi del cinema del calibro di Salce, il già citato Risi, Steno, Nanni Loy ecc. Insomma, non è propriamente come dare un’esame di “Storia della Cinematografia”.

La ruspa "bendata"

Ma perché il livore intellettuale mascherato di innocui sberleffi? Perché, in piena era “populista” e “anti-casta”, una decisione del genere può solo innescare una levata di scudi da parte di una certa frazione della popolazione contro l’ennesima riprova (vera o presunta) del cedimento strutturale e culturale della Politica italiana, fatta di ruspe ed immigrati trattati come oggetti, divise “ad casum”, baciamani immemori e mero tifo da stadio.

Quella stessa frazione di popolazione che, al contempo, non “riesce” a scorgere le stesse problematiche nei comuni palinsesti della TV generalista o dei media di massa, infestati di “prodotti” mediocri, kitsch e stimolanti intellettivamente come un calcio nei gioielli. Ma perché questa disparità di trattamento? Forse perché, la stessa frazione, è stanca di notarlo. Forse perché, a furia di ingerire “scarti”, inizia ad apprezzarne il sapore di una mediocrità che fa più danni di una “nomina formale”, che avvelena e deturpa la nostra cultura in una sorta di stillicidio encefalico di massa che si riflette osmoticamente anche in questioni socio-politiche. E nonostante sia innegabile e palese l’esistenza di un fenomeno popolare politico “di pancia”, una reazione spesso cieca e furiosa innescatasi dopo anni di austerità e governi tecnici che hanno sostanzialmente reso i “poveri” visibilmente più poveri (e non solo economicamente), la netta correlazione “Banfi-populismo” è solo l’ennesima riprova di come l’informazione sia sempre più una questione di “vendibilità alle masse”, piuttosto che una forma di dignità ed onestà intellettuale.

Ma Banfi è anche un “problema” da un punto di vista meramente artistico. Egli è stato uno dei protagonisti della commedia sexy degli anni settanta, assieme ad altri volti noti della comicità come Lando Buzzanca, Mario Carotenuto, Renzo Montagnani. Maschere genuine ed intelligentemente “provinciali”, profonde nel loro “semplice” agire artistico. Protagonisti di un cinema leggero ma in grado, per certi versi inaspettatamente, di fornire una visione della realtà e della cultura italiana dannatamente realistica. Quella degli imprenditori senza scrupoli, dei politici in vendita e carnalmente ricattabili, della gente comune intenta ad ingegnarsi per restare aggrappata alla sopravvivenza. Quella della donna oggetto in lotta per affermare il proprio ruolo, tutt’oggi vista come un mero agglomerato di forme e carni “appetibili”.

Questioni che, ancora oggi, riflettono in modo tragicamente sincero la “modernità italica” che viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, traslata in una società globalizzata senza riferimenti e senza controllo.

La critica evanescente

Ma perché accade tutto ciò? Perché, al solito, l’arte è vittima della “regola del righello”, dell’auctoritas drammatica a furor di intellettuale e dal peso che la critica è solita affibbiare in base a criteri più o meno oggettivi. Perché lo “sbadiglio concettuale” innescato da un artista “serio” e impegnato sarà sempre più nobile di un comico “qualunque” che, tra una pernacchia ed una rocambolesca caduta, riesce a strappare una risata elementare, spontanea ed ingenuamente fanciullesca.

Una reazione di facciata, che solitamente fluisce in una continua genuflessione intellettuale e puramente estetica dinanzi i "mostri sacri", quasi cilicio auto-inflitto per tentare di far tacere quel senso di intima contrizione dovuta alla...noia. Come se un padre di famiglia senza lavoro davvero necessitasse di una “colta ripetizione” da parte d'uno d'essi su cosa sia il dolore, gli stenti e la tragicità dell’incertezza.

La stessa critica che, se ci fermassimo un attimo a riflettere, scopriremmo non avere senso alcuno. Perché, innanzitutto, l’arte è un bisogno di comunicazione. Una comunicazione intensa, totale. Un’invasione di concetti e sensazioni che attraversa e "supera" il singolo individuo.

E nessuno, nemmeno i più grandi e riconosciuti artisti della storia, potrebbero imporre una “visione oggettiva” di una “mole rarefatta e caleidoscopica” che affonda i propri “dolci” artigli nelle zone più profonde ed ombrose dell’uomo. Si potrebbe tentare un giudizio con gli occhi, un giudizio sulla tecnica e sullo stesso. Ma è come se leggessimo la Divina Commedia giudicandone “solamente” la complessa struttura formale e tralasciandone le immagini, i “suoni”, i concetti e l’energia trascendente che l’opera di Dante emana.

Quindi, l’arte è impalpabile e non giudicabile? Esattamente. L’arte è schiava solo dell'intimo gusto, inteso come ricerca interna del bello e della sostanza. Tutti i tentativi di oggettivizzazione non sono null'altro che una pura speculazione personale che, per quanto attinente alla realtà e condivisibile, non è assolutamente vincolante e non rappresenta nemmeno lontanamente le microscopiche sfumature di cui è “vittima” un’opera d’ingegno, persino sconosciute all’artigiano che le ha create.

Ed è naturale, si può e si deve tentare di dare una visione personale ed una altrettanto intima interpretazione di un’opera d’arte: è parte integrante del processo di “metabolizzazione” dell’arte stessa. La quale, comunque, resterà solo superficialmente valida e nemmeno in modo universale. E se si pensa che spesso, a vestire gli abiti “comodi” della critica, ci siano figuri formalmente preparati ma praticamente a digiuno di una qualsivoglia anche solo volontà di offrire se stessi attraverso l’arte, si ha un quadro completo di chi o cosa “spari a caso” etichette, giudizi e categorie. Della serie “Non ho mai preso un pennello in mano, ma quel dipinto fa schifo lo stesso”.

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