Esiste un popolo da molti considerato selvaggio. Esiste un popolo al cui interno diversi gruppi sono in perpetua lotta tra di loro. Esiste un popolo fiero e indipendente, ma che, per forza di cose, è costretto a oltrepassare la Barriera e lasciare le terre a cui sembra essere relegato. Esiste un popolo abituato a stare “al di là” e che sembra tanto più distante quanto immediatamente prossimo.

No, non stiamo parlando dei Bruti e la Barriera non è fatta di ghiaccio, ma di onde salate. La minaccia non è un esercito di Non-morti capeggiati da un gruppo di Estranei, ma il cambiamento climatico.

E forse sono la stessa cosa.

La minaccia della Lunga Notte, che porta, volenti o nolenti, gli abitanti del continente occidentale a mettere da parte i vecchi diverbi tra antiche casate e unire le forze contro un nemico comune, potrebbe essere una chiave di lettura per una visione futura in cui diversi popoli accantonino guerre per dedicare ogni sforzo e investimento all’arresto del cambiamento climatico, i cui effetti sono già tangibili.

Tra i motivi che spingono diverse decine di persone, provenienti soprattutto dal centro Africa, a intraprendere un viaggio lungo, impervio e senza garanzie per fuggire dalle loro case e dalle loro terre, non ci sono solo guerra, dittatura, carestia, e ancora terrorismo, epidemie, carenza di acqua.

Tra i migranti, vi sono, infatti, tantissimi rifugiati climatici.

Una definizione, non dai maestri della Cittadella

La prima persona a utilizzare il termine fu Lester Brown, pioniere dell’ambientalismo, nel 1976. Il concetto, in teoria, appare abbastanza intuitivo: migrante climatico è colui che è costretto a partire dal proprio luogo di residenza in seguito a eventi climatici estremi “che influenzano negativamente le sue condizioni di vita” e si sposta “in maniera temporanea o definitiva sia all’interno del proprio Paese, sia uscendo dai confini” (International Organization for Migration-IOM).

In pratica, però, le cose non sono così immediate. Mentre per i Gran Maestri della Cittadella è relativamente semplice capire quando inizi o finisca la primavera, non è altrettanto possibile stabilire con assoluta certezza quanti siano i migranti climatici, né tantomeno quanti saranno in un futuro prossimo.

Il primo a dare una cifra approssimativa fu l’ex direttore dell’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP), Mustafa Tolba, che nel 1989 affermò che i potenziali migranti climatici fossero circa 50 milioni.

Fu poi la volta di Norman Myers, l’ambientalista britannico considerato il “padre” dei migranti climatici che, nel 1997, asserì che dalla metà degli anni ’90, in tutto il mondo erano presenti circa 25 milioni di rifugiati climatici e che sarebbero cresciuti di numero, fino a raggiungere i 200 milioni nel 2050.

Gli studiosi del fenomeno ritengono che i cambiamenti climatici, siano essi tifoni, allagamenti o siccità, siano un "driver", un vero e proprio acceleratore che contribuisce in modo determinante al deteriorarsi delle condizioni socio-economiche di una specifica area, colpita già da condizioni di povertà, guerra e violenza e che spinge intere popolazioni a lasciare il posto in cui risiedono.

Europa-Westeros

I Paesi occidentali, tuttavia, spesso utilizzano criteri differenti per accogliere o respingere le richieste di asilo. I migranti climatici sono spesso considerati come una categoria particolare di migranti economici e non come rifugiati al pari di coloro che fuggono dalle guerre. Vengono accolti rifugiati iracheni, afgani e siriani, ma non viene dato asilo ai migranti economici, come chi proviene dall’Africa sub-sahariana o da alcune zone del Maghreb. Esiste un solo caso, del 2015, di un richiedente asilo proveniente da Kiribati, nel Pacifico meridionale, Ioane Teitiota, la cui richiesta era inerente a ragioni “climatiche”.

Le popolazioni considerate “a rischio” nell’ambito dei cambiamenti climatici sono quelle che vivono a 150 km dalla costa, corrispondenti a circa il 44% della comunità umana globale.

Queste specifiche aree geografiche, abitate da circa 3 miliardi di persone, sono e saranno in futuro sempre più colpite da inondazioni e fenomeni ai limiti del normale, e le condizioni climatico-ambientali continueranno a cambiare in modo estremo nel medio-lungo periodo.

Così, mentre i tweet hanno preso il posto dei corvi per lo scambio di informazioni e dichiarazioni di porti chiusi, mentre Salvini si innalza a Lord Comandante dei Guardiani della Notte, il cui unico compito nella vita è quello di proteggere i confini dei “regni degli uomini”, definire che cosa significhi essere un migrante climatico è una priorità. Individuare in maniera precisa le aree altamente a rischio, permetterebbe di creare delle tecniche di adattamento o di spostamento controllato della popolazione.

Mentre Salvini si ribella alla Magistratura non accettando sentenze diverse da quelle da lui millantate, come Cersei rifiuta la giustizia dell’Alto Passero, le zone interessate ai cambiamenti climatici aumentano sempre di più, non limitandosi più a zone remote, come Kiribati, ma estendendosi anche a metropoli globali, come Bangkok. E non si parla di cambiamenti nel corso di un secolo, ma tra circa 10 anni.

Per fortuna esiste una ragazza con le trecce che riesce a muovere intere masse di persone, a farle scendere nelle piazze e protestare, per ottenere quello che spetta loro, un futuro in cui terra, acqua e aria siano puliti. La ragazza con le trecce è Greta, non Daenerys.

Mentre ad augurare, urlando, stupri e violenze a una donna capitano (no, non Yara, ma Carola Rackete) che ha salvato delle vite in mare, non è il popolo di Approdo del Re nel Medioevo fantasy, ma gli italiani, nel 2019, decine di persone lasciano le loro case e affrontano un deserto di sabbia e poi uno di onde, con la speranza di un futuro senza guerre, senza distruzione, senza torture, senza morte.

Forse un giorno qualcuno riuscirà a spezzare la ruota degli interessi dei singoli Stati. Forse ci riuscirà, anche senza l'aiuto dei draghi.