Parigi. È passato già un giorno dall’ufficializzazione della rinuncia da parte del Presidente della Repubblica Francese Francois Hollande alla candidatura alle primarie, prodromo necessario per ottenere la nomination socialista. Sarebbe stata la prima volta, come sempre accaduto nei precedenti scontri elettorali, infatti, il presidente otteneva direttamente la candidatura a concorrere alla successiva tornata elettorale per l’Eliseo, senza bisogno di processi intermedi.

Questa volta è stato differente. La sottoposizione di Hollande all’iter delle primarie, e a concorrere in primis con il primo ministro Valls per la nomination, avrebbe una prova pressocchè umiliante.

Il presidente Hollande ha rinunciato alla ricandidatura

A tale proposito, insieme all’intenzione di Hollande di sottrarsi alle forche caudine delle primarie, un ruolo determinante ha avuto anche la constatazione degli indici minimi di gradimento cui il presidente francese è arrivato, e dunque la difficile immaginabilità di una sua seconda rielezione.

Il quinquennio affrontato da Hollande è stato uno dei più duri nella storia della quinta repubblica, e della Francia: la sfida del terrorismo, la riforma della Loi Travail (lo Statuto dei Lavoratori francese), la persistenza della crisi; tutte questioni cui il governo socialista – quando non ne era il fautore – ha saputo dare una risposta debole o inconsistente.

Il terrorismo. Analizzando punto per punto le questioni sopra indicate, la più dirompente è stata l’emergere del fenomeno del terrorismo di matrice islamica. Infatti, all’indomani dell’olocausto del Bataclan, la risposta del governo si è sì fatta sentire, ma sui cieli di e sotto forma di bombe sganciate dagli Eurofighter dell’aviazione francese.

Hollande ha fatto leva sul sentimento nazionalistico-identitario cavalcando l’onda di risentimento e paura che si è propagata dopo gli attentati. Lo ha fatto con la marcia per la pace che hanno visto sfilare in primo piano il presidente francese a incarnare (congiuntamente) la vittima e la guida di un occidente ferito e incapace di rispondere, e lo ha fatto soprattutto con la proposta di revocare la cittadinanza ai cittadini francesi accusati di terrorismo, adesso un altro anello nella lunga catena dei rimpianti del presidente.

Insieme allo scemare della paura è scemato anche il consenso verso il presidente.

A mancare tuttavia è stata una visione di insieme una proposta di ricucitura del tessuto sociale che partisse dalle martoriate periferie di Parigi, piuttosto che dai cieli delle città del deserto iracheno.

La loi travail. Altro tasto dolente è stata la riforma del lavoro proposta dal governo di monsier Hollande, tacciata dalle opposizioni e dalla società civile (in particolare gli studenti) di essere l’ennesima svolta deregolatrice e liberista (molti i parallelismi fatti dai media con il Jobs Act italiano). Un’accusa pesante se consideriamo che il destinatario – il Partito Socialista – è riuscito a dare vita, contro le sue misure, alle più significative mobilitazioni della sinistra e degli studenti da dieci anni a questa parte.

L’austerità. La mancanza di una presenza forte in Europa - che facesse da contrappeso alle forze cattoliche e popolari di matrice germanica - è stata forse quella che più si è avvertita durante la presidenza di Hollande. Mentre il precedente inquilino dell’Eliseo aveva assicurato un ruolo francese di rilievo a Bruxelles (basti solo il ruolo di promotore assunto da Sarkozy per la stipula del Trattato di Lisbona) l’eccessiva pacatezza o meglio l’immobilismo hollandiano non è riuscito ad entusiasmare gli elettori né contrastare le correnti ordoliberali, che continuano a dare forma alle politiche di austerity dell’Unione. Altresì perduta è stata l’occasione di contrastare le forze euroscettiche, si pensi sia alla questione dell’uscita della Gran Bretagna (nei confronti della quale adesso la Francia si comporta da fidanzata tradita) che alla mancanza di una vera alternativa sociale ai proclami lepenisti.