Il governo dice no all’election day per le elezioni amministrative e il referendum sull’autonomia a cui Roberto Maroni tiene molto e, nello stesso tempo, impugna il bilancio lombardo sulla riduzione del tetto massimo applicato al superticket. Non è certa, invece, l’impugnazione della legge approvata dal Veneto. Ma la questione che è stata aperta con le indizioni dei referendum per l’autonomia regionale da Lombardia e Veneto va oltre i quesiti proposti dai Consigli Regionali delle due regioni ed è a suo modo insidiosa per il governo.
Quindi, dando per scontato che i veneti e i lombardi vadano a votare in massa e che stravinca il Sì, la road map è già tracciata: Luca Zaia e Maroni si presenteranno alle rispettive aule dei consigli con il programma di negoziati che intendono condurre con lo Stato, e il disegno di legge contenente « percorsi e contenuti per il riconoscimento di ulteriori e specifiche forme di autonomia per la Regione».
Dovrà necessariamente passare il vaglio del parlamento ed essere approvato a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere, sulla base di un’intesa fra lo Stato e le Regione (è quindi molto alto il rischio che tutto finisca per giacere in un cassetto, come già accadde nel 2007). Quanto ai contenuti dei relativi disegni di legge statale, sono già anticipati dalla delibera veneta 315 del marzo 2016; documento che costituisce il canovaccio principale del testo a cui stanno lavorando i tecnici del gruppo costituito nel novembre scorso.
Quante possibilità hanno il Veneto e la Lombardia di raggiungere un’intesa col governo e far poi approvare dal parlamento una proposta di tale portata? Secondo il Pd, nessuna.
Secondo i leghisti, «moltissime perché dopo il plebiscito non potranno più mettersi di traverso». Ma il problema esiste ed è insidioso non solo per il governo. La questione verte sull’organizzazione dello stato italiano. Il referendum del 4 dicembre scorso, infatti, ha bocciato le modifiche proposte da Renzi ma ha riaperto la discussione sull’attualità della forma di organizzazione dello stato italiano così come è uscito dalla precedente riforma, quella voluta nel 2001 dal centrosinistra, che ha involontariamente creato un sistema ambiguo in cui non è chiaro a chi, tra stato centrale e regioni, spetti la competenza nel fare le leggi su una lunga serie di materie.
E molti pensano, ora, che sia il momento di rendere ordinaria quella specialità di cui oggi godono 5 delle 20 regioni italiane guardando con particolare attenzione al modello del Trentino Alto Adige e alle sue province autonome di Trento e Bolzano.
E che queste ultime si muovano praticamente in contemporanea ai referendum in due regioni come la Lombardia ed il Veneto pone, se non sul piano giuridico almeno sul piano politico, la questione all’ordine del giorno.
E infatti sono inevitabilmente tornati in campo vecchi discorsi mai accantonati e sono stati rispolverati vecchi (ma sempre attuali) progetti con le loro contrapposizioni di sempre: “regionalismo” da una parte “cento città dall’altra” con in mezzo il modello TAA che appunto accontenterebbe entrambe le fazioni.
Ma allora l’insidia dov’è? L’insidia, ovviamente, è principalmente nei tempi; che coincidono con i tempi della crisi di quello che oggi è il maggior partito del paese. e con la inevitabile immediata campagna elettorale per le fantomatiche elezioni politiche nazionali. Per il governo e la sua maggioranza come per le opposizioni ma anche per i proponenti i referendum, i cui obiettivi possono infrangersi sugli scogli dell’incertezza politica.
Le elezioni, infatti, prima o poi verranno e per molti rischiano di essere uno tzunami.
Ma come, nel pieno del periodo delle campagne sovraniste c’è ancora qualcuno che si ostina a parlare di federalismo e, per giunta, questo potrebbe condizionare le prossime elezioni e quindi ci sono buone ragioni per pensare che l’argomento possa essere attuale? Si, sembra proprio che sia così.