India. Gli elettori della più grande democrazia del mondo sono andati a votare. Con tutte le difficoltà che possono verificarsi in un paese di 1300 milioni di abitanti (un sesto della popolazione mondiale!), di cui 900 milioni aventi diritto al voto. Tanto è vero che, per farli votare tutti o quasi, si sono resi necessari ben sette turni elettorali. Il primo, lo scorso 11 aprile sino all’ultimo del 19 maggio.
La non contemporaneità del voto, nei 29 Stati e 7 territori che compongono l’Unione indiana, fa storcere la bocca ai puristi occidentali della democrazia.
A ciò si aggiunge il fatto che lo spoglio complessivo delle schede inizierà solo il 23 maggio prossimo. Con tutti i dubbi che, per tutto questo tempo, le autorità non siano riuscite a evitare manipolazioni sulle schede consegnate.
Inoltre, ci sono alcuni elementi correttivi sulla composizione della camera elettiva che riflettono ancora privilegi dell’India coloniale se non medioevale. 84 seggi su 543, infatti, sono riservati ad alcune “caste” riconosciute e a 47 minoranze tribali. Infine, il presidente della repubblica nominerà due deputati in rappresentanza della comunità anglo-indiana. Insomma, nonostante l’abolizione delle caste, taluni privilegi rimangono.
Una parità effettiva ancora difficile da realizzare per le donne dell’India
Indipendentemente dal farraginoso sistema elettorale, ci sono altri fattori che fanno dubitare dell’effettiva democraticità, quanto meno, di vaste aree dell’India. Per taluni questioni private tra gli islamici, quali il matrimonio, il divorzio, l'eredità e la custodia dei figli, si applica ancora la Shariah.
Cioè la legge islamica che discrimina la condizione della donna, ignora i diritti della prole e contrasta con la dichiarazione universale dei diritti umani.
Ora, in India, i musulmani sono ben 170 milioni, cioè il 12-13% del totale della popolazione. Una forte minoranza il cui voto potrebbe essere decisivo per la formazione di una maggioranza parlamentare.
Tutto ciò, pur essendo il voto islamico parzialmente sotto rappresentato per i motivi di cui sopra. Stando così le cose, difficilmente potrà essere abolita completamente la medioevale legislazione islamica per coloro ai quali ancora si applica.
Dal punto di vista dei diritti, inoltre, anche tra la stragrande maggioranza femminile della popolazione professante la religione induista, la parità effettiva è qualcosa di più di un miraggio. Lo dimostrano le reiterate notizie degli stupri e delle violenze sessuali e il costume dei matrimoni imposti alle bambine, riportate sui media occidentali.
Tra l’altro, il governo uscente è presieduto da Narendra Modi, un esponente del Bip-Partito del popolo indiano, nazionalista e di centro-destra.
Tale partito ha recentemente effettuato una svolta confessionale induista. Il premier ha condotto una campagna elettorale basata sulla sicurezza sia all’interno che ai confini con la Cina e, soprattutto, con l’islamico Pakistan. Con tale paese, l'India non ha ancora risolto la questione del possesso del Kashmir, nonostante tre guerre e i continui scontri di frontiera.
Una maggioranza parlamentare difficile da comporre
Resta fedele all’orientamento laico della repubblica il Partito del Congresso, attualmente all’opposizione. Per questo la minoranza musulmana preferisce, tradizionalmente, votare per tale partito. Analogamente, la minoranza cristiana, anch’essa discriminata e che rappresenta comunque il 2-3% degli elettori.
Il Partito del Congresso venne fondato dal Mahatma Gandhi e poi guidato, dopo l’indipendenza, da Jawaharlal Nehru. Ora ha al suo vertice Rahul Gandhi, bisnipote di Nehru, nonché nipote di Indira e figlio di Rajiv Gandhi. Sia Indira che Rajiv sono stati premier e poi uccisi, come il Mahatma, da nazionalisti indù.
Questa successione dinastica dei leader del maggiore partito laico la dice lunga sull’effettiva maturità democratica degli indiani. Oltre ai musulmani, un altro serbatoio elettorale del Pdc sono i paria, la parte più povera del paese. La religione indù li considera ancora “intoccabili”.
Gli ultimi sondaggi davano il Bip ancora al primo posto ma senza grandi speranze di raggiungere i 272 seggi della maggioranza assoluta.
Molti elettori, soprattutto i milioni di lavoratori agricoli, sono rimasti delusi soprattutto dalle politiche del lavoro governative. Ciò nonostante l’indubbio progresso economico. Probabilmente, perciò, per la formazione di una maggioranza, diverranno decisive le formazioni minori o locali di orientamento più disparato.