Selfie sì, selfie no, lo posto o non lo posto? La nostra vita è ormai letteralmente governata dai social network. Gli usi che ne facciamo sono molteplici: dalla ricerca di nuove amicizie, al recupero di quelle perdute, dalla visione di video, alla lettura di notizie e informazioni varie, davvero utili o semplicemente divertenti. E' un modo per sentirsi "connessi" con il resto del mondo e seguire ciò che ci piace e chi ci piace, senza per questo perdere il contatto con la realtà. E fin qui tutto bene. Ma poi c'è l'altra faccia della medaglia: i social network sono un po' come una piazza di paese frequentata però da milioni di persone sconosciute, che magari ci osservano a nostra insaputa.

Tutto questo può sembrare persino eccitante, la tentazione è quella di mettersi in mostra sempre e comunque. Un po' per ricevere quelle attenzioni e quella dose di autostima che nel mondo reale sembrano mancare, un po' per moltiplicare per milioni di like il famoso "minuto di celebrità", ci esponiamo letteralmente al giudizio, a volte spietato (pensiamo ai casi di cyberbullismo), a volte compiaciuto, certamente falsato, dalla natura stessa del "selfie".

La "selfite", ovvero la mania di farsi selfie e postarli sui social

Non è difficile infatti apparire come vorremmo, grazie a smartphone con fotocamere sempre più sofisticate, filtri ed effetti, seguendo improbabili guide al selfie perfetto o semplicemente provando e riprovando l'inquadratura migliore, l'espressione più accattivante.

Del resto lo fanno le star di fama internazionale, perché non dovremmo farlo anche noi? Spinti dall'obiettivo di fare incetta di like, cadere negli eccessi è un attimo. Ma che nome dare a questa vera e propria forma di dipendenza?

Il termine "selfite", forse poco fantasioso, quasi ovvio, è emerso per la prima volta nel 2014 quando uscì una fake news che annunciava che l'American Psychiatric Association avrebbe iniziato a riconoscerlo come un vero e proprio disordine.

A distanza di pochi anni, da quel buffo, ma in qualche modo profetico episodio, oggi per la prima volta un team di scienziati si è realmente interessato ad un simile pericoloso comportamento. Si perché di selfite si muore: il fenomeno in ascesa dei selfie estremi (ad es. autoscatti sull'orlo del piano più alto di un grattacielo o sui binari un secondo prima del passaggio di un treno) ha già provocato centinaia di morti e feriti in tutto il mondo.

Gli psicologi della Nottingham Trent University e della Thiagarajar School of Management in India (è il Paese che conta più morti per autoscatti pericolosi al mondo), in uno studio pubblicato sull'International Journal of Mental Health and Addiction, hanno esaminato e delineato il fenomeno, suddividendolo in tre categorie: quella cronica, quella acuta e quella borderline.

I tre livelli di selfite

I dati che appaiono nello studio sono prettamente di tipo statistico. Sono basati infatti su un sondaggio che ha coinvolto 400 persone indiane, con 20 affermazioni alle quali rispondere attraverso l'attribuzione di un punteggio fino al massimo di 5. Tuttavia, grazie a questi, i ricercatori hanno ampliato la definizione di selfite creando una "scala della selfite".

La scala include tre livelli di severità:

  • borderline: vengono definiti così coloro che realizzano tre selfie al giorno, ma non necessariamente li postano sui social media;
  • acuto: è il livello raggiunto da chi scatta e pubblica almeno tre selfie al giorno;
  • cronico: rientrano in questo livello coloro che non riescono a controllare il loro bisogno di scattarsi selfie e postarli fino a sei volte al giorno.