Una sola melanzana è costata allo Stato italiano migliaia di euro. Ci sono voluti tre gradi di giudizio spalmati in nove anni di vita per arrivare ad assolvere un uomo accusato prima del furto, poi del tentato furto di una melanzana del valore al massimo di 20 centesimi. Solo il pronunciamento della Cassazione ha finalmente posto fine a un farraginoso e assurdo procedimento a carico di un 49enne di Carmiano, comune in provincia di Lecce. Sul ciglio di un campo, il 'reo' fu trovato in possesso di un singolo ortaggio e denunciato. La vicenda assurda e paradossale si è trascinata per tutti questi anni con costi altissimi ed evitabili per l'amministrazione della giustizia.

Finché i giudici con l'ermellino hanno decretato la non punibilità dell'imputato vista la pochezza del fatto tacciando i colleghi di aver sbagliato.

Con le mani nel 'sacco' (vuoto)

Nove anni fa, il protagonista dei fatti aveva parcheggiato la sua auto ai bordi di una strada in prossimità di un campo di ortaggi nella località salentina, lasciando il portabagagli aperto come a dover di lì a poco caricare qualcosa. Può darsi pure che volesse fare una sorta di 'spesa proletaria' raccogliendo gratuitamente una grande quantità di solanacee direttamente dal produttore al consumatore. Fatto sta che quando è stato beccato dai carabinieri, il recipiente che aveva in mano di melanzane ne conteneva solo una.

Eppure tanto bastò a far partire la denuncia per furto, non già da parte del proprietario del terreno che aveva scelto di lasciar correre, ma dei militari in base all'obbligatorietà dell'azione penale, quindi ad avviare un'indagine.

Anomalie della giustizia italiana

Cara è costata quella melanzana. Non all'accusato, eccetto che in termini di tempo e stress.

L'uomo risultando indigente ha potuto usufruire del gratuito patrocinio. Ma è costata cara a tutti noi cittadini. Venti centesimi del valore di una melanzana, contro migliaia di euro spesi dalla macchina giudiziaria tra indagine, atti giudiziari, processi e la parcella per la difesa dell'imputato. Dal primo al terzo al grado è trascorso quasi un decennio con rovesciamenti di fronte e dell'interpretazione giuridica del fatto.

Nel primo grado di giudizio e in Corte d'Appello, infatti, non era stato preso in considerazione lo stato di necessità del furto dettato dall'esigenza di soddisfare un bisogno alimentare della famiglia dell'uomo. I giudici avevano invece fatto riferimento al fatto che l'imputato avesse precedenti: era già stato condannato nel 2000 per un furto in cui aveva agito in maniera simile. Per questo il pm aveva chiesto il massimo della pena: sei anni.

Ricorso accolto e colleghi 'bacchettati'

La svolta è arrivata finalmente la scorsa settimana quando i giudici della quinta sezione penale della Corte di Cassazione hanno depositato la sentenza definitiva. Il verdetto accoglie il ricorso presentato dall'avvocato del ladro di una melanzana e decreta che l'uomo agì per necessità.

La sentenza del 2013 in Corte d'Appello rispetto a quella di primo grado infatti, non aveva assolto l'imputato ma si era limitata a ridurre la condanna da cinque a due mesi di reclusione perché l'accusa di furto era stata derubricata in tentato furto. E la multa inflitta era passata da 300 a 120 euro. Ora gli ermellini hanno sconfessato i colleghi, ribaltando l'interpretazione dei fatti e bacchettandoli per l'errore commesso. Perché sostengono ci sia stata una 'svista' sul calcolo della pena e non sia stato tenuto conto della particolare 'tenuità' del fatto. Circostanza prevista dal Codice Penale ma non considerata dalla Corte d'Appello di Lecce. In parole povere, non si può mandare in carcere un uomo per il tentato furto di una melanzana. I casi su cui applicarsi sono ben altri.