Una nota culinaria si tinge di tinte antiche, antichissime, arcaico-religiose. Chi l’avrebbe mai detto che su di uno dei piatti romani per eccellenza, i carciofi alla giudia, benedetto da quell’appellativo di cui tanto va fiera la comunità ebraica romana, s’abattesse, come riportato dal quotidiano Haaretz, la mannaia di una guida Michelin-Kosherut tanto autorevole quanto ieratica: quella del rabbinato israeliano nientemeno che "divisione importazione"?

Un intrigo culinario internazionale

kosher vuol dire pressappoco "ortodosso" alla dottrina in linguaggio ebraico: tutto ciò che viene ritenuto in linea ed ossequioso dei canoni, dei codici e delle interpretazioni dei testi ebraici, anche con conseguenza a volte spiazzanti. Kosherut ne declina il senso in maniera strettamente culinaria: quelle norme insomma che tra l’altro vieterebbero il maiale e cavallo a favore degli animali che hanno zoccolo spaccato in due parti, e le creature marine prive di squame, e tanto il mite coniglio quanto i fastidiosissimi insetti.

E a far paura non ci sono le tremende pacche sulle spalle dei Cannavacciuolo onnipresenti in tutte le salse (è caso di dire) con anche loro modesti guai coi Nas, o la faccia schifata di Bastianich che sputa bocconi (a suo dire) immangiabili. Qua c’è una cultura ed una fede, quella degli ebrei romani. Un ghetto ebraico che forse poco si sarà interrogato sulla pertinenza di certi piatti locali, lo ammetterà forse anche qualche ristoratore, ma che vanta una antichissima tradizione ebraica al pari di tanti gloriosi ghetti europei.

La tribuna dei giudici ha invece il volto rassicurante del rabbino Yitzhak Arazi: "è pieno di vermi e non c'è modo di pulirlo, non può essere kasher, non è politica, ma questa è la nostra legge religiosa", ha dichiarato dopo essersi occupato del “caso”, e aver messo al bando la preparazione “de noantri”, che non garantirebbe controlli e certe garanzie di purezza.

L’accusa e la difesa

Il carciofo alla giudìa si preparerebbe troppo “distrattamente" e con pochi controlli, semplicemente prendendo la varietà “mammola” col suo ricco fiore, e giusto sbattendolo per allargarne le foglie, e dopo una immersione in aceto ponendolo a friggere capovolto su una base d’olio, cosi com’è. E quindi vermetti e funghi potrebbero allignare nel cuore del carciofo, rendendo l’innocuo ortaggio un focolaio di impurità.

Lo stesso rabbinato israelitico suggerisce una ovvia quanto impossibile via d’uscita che renderebbe tanto kosherut quanto anti-romana la preparazione del piatto: spaccare il carciofo in quattro e ispezionarlo, ma declassando così il carciofo alla giudìa a semplice carciofo fritto.

E se le prime reazioni sono “di pancia”, con chi dichiara che “in 80 anni mai visto un vermetto” come la ristoratrice del ghetto Italia Tagliacozzo, e con il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e la presidente della comunità ebraica Ruth Dureghello che si fanno immortalare nella preparazione del piatto proprio nel periodo di maggior auge, della pasqua ebraica, altri invece cercano una disamina più articolata e ragionata.

Il carciofo romano, a differenza della specie israeliana usata per la valutazione, sarebbe ben più serrato di foglie, tali da impedire totalmente penetrazioni e accasamento di qualsiasi specie infestante, come congetturano Umberto Pavoncello di “Nonna Betta” e Angelo Di Porto di “Reginella”.

Fatto sta che il divincolamento “all’italiana” se basterà di certo ai pratici e golosi romani per giustificare un uso secolare su cui nessun fulmine divino si è mai abbattuto, forse non basterà a qualche cliente ebreo più intransigente. Ma sicuro nella “città eterna” continuerà ad eternarsi anche il piatto tradizionale messo già alla prova dalla storia e dalle tante vicissitudini di Roma e dei romani, a dispetto di vermi e parassiti.

E, allora, a valutare con impunito e popolaresco faccione il dilemma, sarà l’Alberto Sordi di “Un americano a Roma”, che ancora una volta, preso dalla gola, sentenzierà: “carciofo m’hai provocato? E mo me te magno… ”