La seconda stagione di "Th1rteen R3asons Why" ha da poco debuttato su Netflix e, a fianco alla calda accoglienza dei fan, è tornata a far parlare di sé: sia per come affronta il delicato caso del suicidio (e in particolare per la pericolosa possibilità di una nuova ondata di suicidi a causa del cosiddetto Effetto Werther, come era successo per la prima stagione), sia per come affronti le altre tematiche caratteristiche di questa serie, quali depressione, violenze sessuali e bullismo. Viene messo un accento particolare su quest'ultimo argomento, e nello specifico vengono messe in luce alcune delle classiche dinamiche di gruppo che si vengono a creare all'interno di classi di liceali, che nel mondo fittizio di "Tredici" vengono portate all'estremo.

Non per questo, però, non dovrebbero essere oggetto di attenta analisi, dal momento che non sono così dissimili da ciò che succede lontano dalla finzione.

I primi studi

Il bullismo catturò particolarmente l'attenzione degli psicologi negli anni '70, in Norvegia, dove si svolsero i primi studi sul campo. Al tempo, diversi ragazzi, di diverse età ed in maniera completamente indipendente, si tolsero la vita lasciando scritto che la colpa fosse da attribuire ai continui abusi di cui erano soggetti negli ambienti scolastici. Vista la portata mediatica del fatto, il governo stanziò un finanziamento al professor Dan Olweus affinché potesse studiare il fenomeno e mettere in atto un piano per arginare il problema (ottenendo un successo straordinario, con una diminuzione del 50% in due anni del numero di denunce).

Da allora questo tipo di studi vennero intrapresi prima in Inghilterra, poi in Europa, America, Australia e poi nel resto del mondo, arrivando a oggi a essere uno dei fenomeni maggiormente studiati, rivelando la complessità del bullismo e del suo modo di manifestarsi.

Il bullismo come fenomeno psicosociale

Sarebbe quindi limitato ed errato circoscrivere le spiegazioni di questo tipo di fenomeno alla sola dinamica esistente tra il bullo e la sua vittima.

Il bullismo ha natura psicosociale e i fattori che ne permettono la genesi e il suo perdurare sono da individuarsi nel contesto sociale entro il quale si articola.

Le definizioni di bullismo sono molteplici, ma vale la pena citarne due: la più classica, formulata da Farrington nel 1993, che lo definisce come "un'oppressione, psicologica o fisica, ripetuta nel tempo ad opera di una persona - o un gruppo di persone - più potenti nei confronti di una persona percepita come più debole"; e una seconda, che definisce il bullismo una forma di abuso di potere.

Qualunque definizione si preferisca, è fondamentale evidenziare il ruolo focale svolto dalla maggioranza degli astanti, che assistono a questo tipo di abusi senza intervenire o denunciare il bullo, sostenendo più o meno attivamente il sistema gerarchico nel quale si trovano e, di fatto, legittimando e rinforzando questo tipo di fenomeno. Studi condotti dalla seconda metà degli anni '90 hanno messo in luce persino diversi ruoli oltre a quella del bullo e della vittima: il difensore della vittima, il rinforzatore del bullo, lo spettatore, il non coinvolto... Appare quindi ovvio come non si possa ignorare la dimensione sociale di questo fenomeno.

Il fenomeno sommerso

Il bullismo si può manifestare in due forme: quello diretto, che fa riferimento a tutti quegli atti di violenza fisica o verbale, per l'appunto, diretta, quali calci, pugni, schiaffi, sputi, insulti e offese; e quelli indiretto, più psicologico, dal momento che fa riferimento a una serie di azioni e atteggiamenti che mirano alla denigrazione e all'isolamento sociale della vittima, come ad esempio ignorarla, diffondere pettegolezzi screditanti, fare scherzi pesanti in sua assenza...

Ovviamente la forma indiretta è quella più insidiosa e difficilmente riconoscibile, e rende ancora più difficile smantellare questo tipo di dinamica: per questo motivo il bullismo è stato anche definito il "fenomeno sommerso".

Il coinvolgimento collettivo fa sì che questo processo sia accettato e condiviso da tutti, specie se consideriamo che la nascita e l'affermarsi di gerarchie all'interno dei gruppi è un processo naturale. E per quanto strano possa sembrare, è anche naturale (per quanto riprovevole) che all'interno di un gruppo un individuo, solitamente più debole, assuma il ruolo di capro espiatorio, contro il quale vengono indirizzate e sfogate le tensioni dell'intero gruppo; anche per questo motivo diventa così complicato per una vittima uscire dal proprio ruolo: è il gruppo stesso a ignorare i suoi tentativi di cambiamento e, a volte, persino a inasprire gli atteggiamenti ostili.

E la cronaca è piena delle tragiche storie di coloro che, non riuscendo a evadere da questo processo, siano arrivate a gesti estremi.

Come cambiare le cose

Sono comunque molteplici i modi di intervenire per arginare il problema. In ambito scolastico è chiaro che il focus principale dovrebbe rimanere quello di un approccio sistemico, volto a modificare le dinamiche intraclasse, sviluppando empatia, collaborazione, capacità cooperative, oltre che valorizzando le differenze individuali, così da incrementare la tolleranza sociale e di una migliore convivenza. Allo stesso modo, è importante fare attenzione alle condizioni, tanto psicologiche quanto familiari, sociali ed economiche, dei ragazzi (o dei bambini): nonostante, in virtù di quanto detto finora, non si possano delineare dei modelli specifici ed univoci di bullo e di vittima, è pur sempre vero che alcune dinamiche individuali possono portare a una maggiore predisposizione nell'assumere questi ruoli.