Il boss della 'ndrangheta ha ragione: deve essere risarcito. 5mila e 500 euro è la cifra che spetta a Luigi Mancuso, 64 anni, considerato il capo del clan di Limbadi, comune della provincia di Vibo Valentia in Calabria. La deve sborsare il ministero di giustizia per la lungaggine del processo a suo carico durato ben 14 anni. Lo ha stabilito la corte d'Appello di Salerno.

Ricorso del boss di 'ndragheta, la giustizia 'lumaca' deve risarcirlo

La sezione civile della Corte d'Appello di Salerno ha accolto il ricorso presentato da Francesco Sabatino e Antonio Pasqua, difensori di Luigi Mancuso, per la durata 'irragionevole' del maxi processo in cui è stato imputato, scaturito dall'operazione antimafia denominata 'Genesi', iniziato nel 2000, finito dopo 14 anni.

Mancuso era stato scarcerato un anno prima della fine del procedimento, nel 2012, dopo aver scontato 29 anni di detenzione, sottoposto al regime del carcere duro, il 41 bis, per associazione mafiosa e associazione a delinquere finalizzata al narcotraffico.

Visto che in base alla legge Pinto, la ragionevole durata di un processo è di tre anni, i giudici di Salerno hanno accertato un 'ritardo' di 11 anni, quattro mesi e 27 giorni, e stabilito che lo stato dovrà, come equa riparazione, risarcire Mancuso con un indennizzo pari a 500 euro per ogni anno o semestre eccedente il termine ragionevole. La somma totale è di 5mila e 500 euro. Una sentenza del genere potrebbe dare il via ad altre richieste analoghe.

Solo nel processo 'Genesi' sono finite alla sbarra 40 persone ritenute a vario titolo affiliate al clan Mancuso di Limbadi o ad altre cosche. Di queste, alcune sono stati assolte, per altre si è fatto ricorso in appello con ulteriore ritardi. Fatto sta che il ministero potrebbe dover pagare oltre 200 mila euro in vista di analoghi risarcimenti.

Luigi Mancuso dopo il lungo e complicato processo, era stato assolto dinnanzi al Tribunale di Vibo Valentia nel maggio 2013 perché già giudicato e condannato per gli stessi fatti e reati dalla Corte d'Assise di Palmi dopo l'operazione antimafia denominata 'Tirreno' e a Milano nell'operazione 'Count down'. La procura, a seguire, non ha presentato alcun ricorso per cui la sentenza è diventata definitiva.

Llibero dal 2012, dopo un lungo periodo di irreperibilità, è sottoposto a sorveglianza speciale.

Un boss di grande spessore criminale

Soprannominato 'u signurinu' per la ricercatezza, sin da giovane, nel vestire, Mancuso è considerato una delle figure di spicco della 'ndrangheta calabrese e il capo dell'omonima cosca di Limbadi, dedita a narcotraffico, usura, estorsione, riciclaggio di proventi illeciti nel settore turistico alberghiero, e molto attiva nel settore degli appalti pubblici. Considerato tra i boss più potenti su scala nazionale e internazionale, ereditò il bastone del comando dal defunto fratello Ciccio, essendo il più piccolo della cosiddetta 'generazione degli 11', una famiglia di 11 figli tra fratelli e sorelle nati dal capostipite Giuseppe Mancuso.

Alcuni collaboratori di giustizia hanno raccontato che Mancuso in un 'summit' che si svolse nel 1992 a Nicotera, avrebbe rifiutato di aderire alla strategia stragista di Cosa Nostra, poi attuata con le bombe di Roma, Firenze e Milano del 1993, e con gli agli attentati di Capaci e via d’Amelio.

Sarebbe stato contrario anche all'attentato che il 9 aprile dello scorso anno ha ucciso il biologo Matteo Vinci, e ferito Francesco, il padre di 73 anni. Ad ucciderlo è stata una bomba collocata sotto l'auto. Secondo il procuratore capo della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, la vittima non si sarebbe piegata ai diktat del clan malavitoso che voleva entrare in possesso dei terreni della famiglia per affermare il proprio dominio su quell’area. Per questo omicidio è in carcere Rosaria Mancuso, nipote di un fratello defunto.