Il maxiprocesso Rinascita-Scott nato dall’operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia guidata da Nicola Gratteri, che conta oltre 300 imputati, prosegue a ritmo serrato. Mercoledì 17 marzo, i collaboratori di giustizia Angelo Servello e Francesco Oliverio sono stati ascoltati nell’aula bunker di Lamezia Terme allestita all’interno degli stabili in disuso della Fondazione Terina. Servello, ritenuto vicino ai clan di 'ndrangheta Fiaré-Razionale di San Gregorio d’Ippona e Accorinti di Zungri, ha risposto alle domande del pm Andrea Buzzelli ricostruendo il contesto nel quale sono maturati nel 2001 gli omicidi di Gennaro Vecchio e Domenico Scuteri.

A seguire il collegio giudicante presieduto da Gilda Cavasino con a latere i giudici Gilda Romano e Claudia Caputo ha assistito alla testimonianza resa da Oliverio che ha rivelato come le faide in corso in Calabria non rendevano immuni i locali delle cosche nel nord Italia, gli accordi a cui si è addivenuti per spartirsi l’appalto dell’Expo Milano e i rapporti con la massoneria deviata.

Servello: 'Scuteri fu ucciso per vendetta'

Il collaboratore di giustizia Angelo Servello ha raccontato che il suo “socio” Giuseppe Accorinti era solito accompagnarlo a Roma per gestire le compravendite di cocaina. “Nelle settimane successive all’omicidio di Vecchio – spiega Servello - mi fece andare da solo perché disse che doveva organizzarsi per far fuori Scuteri.

Secondo quanto appresi l’autore dell’omicidio di Gennaro Vecchio era stato proprio Domenico Scuteri di San Calogero. Non ricordo quali gruppi fossero coinvolti in quella vicenda. Ambrogio Accorinti Ambrogio tentò di far da paciere affinché Vecchio non venisse ucciso, l’attrito con Scuteri nasce infatti dopo l’uccisione di Vecchio della quale lo ritenevano essere responsabile.

Scuteri fu quindi ammazzato da Giuseppe Accorinti e altri per vendicare l’esecuzione di Vecchio. Quest’ultimo ricordo che aveva dei problemi con gli Anello, ma non so per quale motivo perché con loro io dividevo solo i proventi delle estorsioni”.

Oliverio: 'Omicidio fallito in Piemonte, non avevano pagato il fitto'

Il 50enne Francesco Oliverio ex boss di Belvedere Spinello, in provincia di Crotone, con calma ha ricostruito il filo invisibile che lega le cosche dalla Calabria al nord Italia e i rapporti per accaparrarsi appalti nonché sentenze di assoluzione.

“Ho conosciuto Franco e Salvatore Arona in carcere. Il loro fratello Raffaele – racconta Oliverio - aveva un negozio in Piemonte e si occupava di truffe e narcotraffico anche in Lombardia. Il loro territorio era quello di Carmagnola, dove avevano creato il locale legato alla famiglia Bonavota di Sant’Onofrio, piccolo centro del vibonese. C’era una faida tra gli Arena e i Grande Aracri, noi eravamo alleati con gli Arena che a loro volta erano a disposizione dei Bonavota. Entrai in contatto con Domenico Bonavota nel 2005 quando ero latitante. In quel periodo ci eravamo presi l’incarico con la famiglia Arena di compiere un omicidio a Moncalieri, nell’hinterland torinese. I miei sodali sono venuti dalla Calabria per chiedermi questo favore che andava fatto ai fratelli Bonavota.

L’obiettivo era un soggetto che non ricordo, ma sapevo che macchina aveva, i suoi orari, dove aveva lo studio, quale era il cancello di casa dal quale entrava e usciva. Ero già latitante, mi recai in Calabria e gli Arena mi dissero che c’erano scooter e armi sotto al palazzo della vittima, poi mi sarei andato a nascondere in un appartamento poco distante. Percorsi il tragitto dal luogo in cui doveva avvenire il delitto fino a questo appartamento, ma c’erano i carabinieri che tentavano di aprirne la porta. Io mi sono infuriato perché se fossimo stati dentro ci avrebbero arrestato e loro con molta leggerezza invece ci stavano per ospitare in una casa sotto sfratto perché non avevano pagato l’affitto.

Allora ho detto che non avrei compiuto l’omicidio perché la situazione non era sicura e mi sono arrabbiato con gli Arena. Una volta tornato in Calabria li ho incontrati ad Isola Capo Rizzuto e gli ho raccontato il perché l’omicidio a Moncalieri non era stato consumato”.

L’Expo, la massoneria e i processi 'aggiustati'

“Tutte le famiglie calabresi – spiega Oliverio - avevano interessi nella realizzazione dell’Expo di Milano bisognava trovare un modo per metterci d’accordo e non ammazzarci. La ditta Perego era quella insieme ad un’altra a realizzare i lavori. Vi fu una partecipata riunione per stabilire come organizzarsi”. Dagli appalti ai processi tutto sembrerebbe essere sotto lo stretto controllo delle ‘ndrine.

“Il maestro venerabile Sabatino Marrazzo – chiarisce Oliverio - è mio cugino, massone a Vibo Valentia che intratteneva relazioni con le istituzioni. Apparteneva alla ‘ndrangheta dalla nascita, era il contabile del clan di Belvedere Spinello all’interno del quale aveva ricevuto la Santa. Si relazionava con i Mancuso, i Molé, era un professore, era laureato. Quando venne arrestato mancavano 50mila euro da dare agli avvocati Pittelli e Giuseppe Pitaro per aggiustargli il processo. Uno dei due legali doveva fare da tramite per corrompere qualche giudice o qualche perito non saprei, ma basta vedere chi era il giudice d’appello che poi lo ha assolto. Novantamila euro li abbiamo presi dalla cassa comune dei clan e 50mila euro glieli ho dati io.

Erano tutti sicuri che si sarebbe concluso con l’assoluzione il processo perché nello studio Pittelli lavorava il figlio della compagna del procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi. Marrazzo mentre ero latitante mi voleva presentare i suoi confratelli massoni, ma gli dissi di no perché meno gente mi vedeva meglio era. Parlava di magistrati che erano con lui in massoneria, ma anche di forze dell’ordine e vertici di altre istituzioni. Loro (Sabatino Marrazzo, Geremia Iona, Franco Iona) si occupavano di mantenere saldi rapporti con questi ambienti. Ricordo che nella loggia di Marrazzo c’era Giovanni Mancuso con il quale aveva rapporti massonici. Sapevano e decidevano ancora prima che uscisse un bando di appalto (dalla provincia, alla regione, fino ai piccoli comuni, di una strada o di qualsiasi opera) con quali ditte intervenire. A loro non interessava il colore politico, ma il personaggio. Io cercavo di starne più lontano possibile per tutelare la sua immagine perché era un laureato incensurato”.