Tra gli artisti italiani più importanti degli ultimi anni vi è Giorgio Casu, in Arte "Jorghe". Nato nel 1975 a San Gavino, in Sardegna, Giorgio con le sue opere ha girato il mondo, 'conquistando' anche la Casa Bianca e Times Square.

Ieri, domenica 12 settembre, si è conclusa a Cagliari (all'EXMA) la mostra da lui allestita, con la collaborazione del consorzio Camu. A curare il tutto è stata Simona Campus: "È stata bravissima: ha fatto sì che i visitatori della mostra percepissero coerenza e senso logico", ha detto di lei Giorgio. In questa intervista a Blasting News, Jorghe racconta il proprio percorso artistico e, prima ancora, umano.

'L'arte, in Sardegna, era solo una passione: la svolta a New York'

Sei nato a San Gavino, un piccolo comune della Sardegna, e sei riuscito a girare il mondo, esponendo le tue opere in numerosi posti prestigiosissimi. Come è partito il tuo percorso?

"Tutto è iniziato a San Gavino, dove sono nato. Mi sono laureato a 26 anni e poi ho lavorato in Sardegna per due anni, durante i quali ho effettuato svariati lavori tra cui quello in un centro di igiene mentale, con malati psichiatrici. Quest’ultima esperienza mi ha formato tanto, portandomi a sperimentare di più con la pittura. A un certo punto, però, ha iniziato a pesarmi l’idea di non avere possibilità in Sardegna. Mi sono guardato intorno e ho pensato che, nel mio percorso formativo, fosse necessario imparare l’inglese: mi dava molto fastidio l’idea di non poter parlare con tutto il mondo.

Ho così deciso di partire in Inghilterra, usando i pochi soldi che mi ero messo da parte. Sono andato a Leeds, dove c’erano dei corsi di inglese abbastanza prestigiosi. Sono partito nel 2002 e sono rimasto per due anni e mezzo. Successivamente ho deciso di partire di nuovo, prima per la Thailandia e poi per l’Australia, dove sono rimasto per altri due anni.

Poi ho continuato a girare: prima sono tornato in Inghilterra, poi ho viaggiato in Sudamerica, in Messico e in diversi altri posti. Durante questi viaggi ho rafforzato la mia professionalità come artista".

In una tua intervista a Kilimangiaro, ti sei definito prima viaggiatore e poi artista. Quando hai capito che l’arte sarebbe potuta divenire un vero e proprio lavoro, oltre che una passione?

"In Sardegna era una passione.

Penso comunque che, quando una persona ha una passione, ciò che ama fare lo fa a prescindere. Io, per esempio, dipingerei anche se non mi desse da vivere. Viaggiando cominciai a fare tanti lavori, tutti quelli che trovavo, per guadagnare qualche soldino. Contemporaneamente, nei posti in cui mi recavo facevo anche l’artista, allestendo mostre inizialmente in bar e ristoranti, poi nelle gallerie. Già in Australia potevo vivere della mia arte, ma a New York c’è stata la svolta. Nei primi anni ho iniziato a lavorare sodo: nella mia testa il successo equivaleva a far divenire l’arte il mio unico lavoro. Da dieci anno sono riuscito a farlo, perfezionandomi".

Una grande svolta ha rappresentato la città di New York.

Mi ha molto colpito che alcune delle tue opere siano finite addirittura alla Casa Bianca e a Times Square. Ci racconti qualcosa di più?

"È successo in modo molto naturale. All’epoca facevo già delle mostre molto importanti in centro a Manhattan. Avevo creato, per un'esposizione, un ritratto di Barack Obama (all’epoca Presidente degli Stati Uniti, ndr) e una mia amica fotografa lo ha fatto vedere alla curatrice di una mostra alla Casa Bianca. In quel periodo, infatti, nella residenza del Presidente era allestita un'esposizione per una raccolta fondi in aiuto della popolazione di Haiti, colpita dal terremoto del 2010. Stavano cercando un ritratto di Obama da esporre e alla fine hanno scelto il mio.

È stata una bella emozione, anche se io alla Casa Bianca non sono potuto andare. Ma non è un evento che mi ha cambiato la vita, perché in quel momento succedevano già tante cose a New York. Ha comunque portato più interesse da parte della stampa. Ho fatto poi l’evento a Times Square, ma anche al New York Times e in numerosi altri posti prestigiosi. Nonostante questo, comunque quando ero lì non ho percepito tutto il grande clamore che, invece, si è venuto a creare in Italia e in Sardegna".

'La Sardegna è uno dei posti più belli e rigeneranti al mondo, ma volevo staccarmi dal sardo-centrismo'

Nonostante tu abbia girato quasi tutto il mondo, sei rimasto molto legato alla Sardegna. A San Gavino, ad esempio, ti occupi di fare murales con l’Associazione Culturale Skizzo.

"Quando sono partito il mio obiettivo era quello di staccarmi dal ‘sardo-centrismo’, il fenomeno per cui qualsiasi cosa viene rapportata a ciò che accade in Sardegna. Questo, secondo me, è uno svantaggio e un’attitudine ignorante. Sono comunque sempre tornato nella mia terra per stare con la famiglia, e il periodo nell’Isola lo adoravo: secondo me la regione è uno dei posti più belli e rigeneranti che esistano al mondo. Dopo che passavo un mese in Sardegna, però, volevo scappare a causa del modo di intendere la vita, contraddistinto da una chiusura mentale: si è poco aperti a ciò che arrivava da fuori. Per questo tornavo volentieri a New York, in una città dove non importa a nessuno chi tu sia.

Lì sono altamente meritocratici: a loro interessa il contributo che puoi dare alla società".

Poi, però, qualcosa è cambiato.

"Negli ultimi anni avevo bisogno di riposare un po’ di più. Nel 2014, poi, ho iniziato il lavoro a San Gavino. Per i quattro anni successivi mi dividevo tra New York, Messico e Sardegna. Piano piano mi sono riavvicinato alla mia terra. Da 2 anni, vuoi per la pandemia o perché sono diventato padre, sono tornato in pianta stabile in Sardegna, dove ora vivo. Qui ho iniziato un bel progetto a Sant’Antioco, sono direttore artistico del progetto di San Gavino, ho fatto la mostra all'Exma di Cagliari (finita il 12 settembre, ndr). Sono contentissimo di continuare questa strada anche nei prossimi anni".

'Le farfalle? Simboleggiano la rinascita dopo le difficoltà'

Parliamo ora della tua arte. Colpisce, all'interno delle tue opere, la presenza quasi ricorrente delle farfalle. Che legame hai con questi animali?

"Inizialmente ho messo le farfalle perché mi piacevano e mi davano l'occasione di usare tanti colori. Successivamente mi è piaciuta tanto la storia delle farfalle monarca, ovvero quelle che dal Canada attraversano gli Usa per andare in Messico. Durante questo viaggiano cambiano numerose generazioni e mi sembravano una grande metafora di tutti coloro i quali lottano durante i propri viaggi. La farfalla, per il suo ciclo di vita, è poi anche un ottimo esempio di trasformazione. In ogni quadro simboleggia la rinascita dopo le difficoltà".

Nella mostra a Cagliari hai dedicato alle farfalle un’intera stanza. Come ti è venuta l’idea?

"A un certo punto mi è venuta voglia di fare una collezione di farfalle, con 225 pezzi. Tuttavia, la prima stampa non mi era piaciuta per colore e saturazione. Quando abbiamo allestito la mostra a Cagliari, l’ultima stanza non doveva far parte della mostra. Era uno spazio vuoto e mi sembrava un peccato: così sono riuscito a farmi dare anche quest’ultima stanza. Avevo centinaia di farfalle a casa, e così ho pensato di usarle per farne un'installazione. I pezzi sono poi diventati 600. Nella mostra le farfalle sono la metafora delle particelle di luce. È una stanza che parla di frequenze: della luce, dei suoni e delle persone.

Le farfalle, in questa installazione, sono anche metafora delle persone. Ognuno vibra a una certa frequenza: incontriamo le persone che hanno la nostra stessa vibrazione".

Nella mostra vi è poi una stanza dedicata ai ritratti di Alice. Di questa collezione colpiscono molti gli occhi e il filo spinato presente nel busto.

"Tutti dicono che gli occhi sono malinconici. La mia idea, in realtà, era quella di rappresentare l’innocenza e lo smarrimento, a cui segue sempre una presa di posizione. Il filo spinato rappresenta il dolore che causa lo smarrimento, che a sua volta porta ciascuno di noi a trasformarsi".

Nel cielo, infine, sono ricorrenti delle figure geometriche.

"Sì, i triangoli. Rappresentano un’aspirazione spirituale: è la volonta di migliorare il proprio spirito, di elevarsi nei percorsi di conoscenza che finiscono sempre in una sorta di ricerca catartica".