Fino a ieri il motto di ogni avvocato era “l’avvocato non perde mai”, da oggi le cose sono cambiate: anche l’avvocato può non solo perdere ma anche essere costretto a risarcire i danni al cliente. Ciò è quanto statuito dalla Cassazione con la sentenza n. 19285/16.

Esemplare è stata infatti la condanna al risarcimento di 20.000 euro inflitta all’avvocato in favore del suo cliente a seguito dell’insuccesso di un appello palesemente infondato.Ebbene, quando l’avvocato prevede che l’azione giudiziale potrebbe avere senz’altro un esito infausto ha il dovere di renderne edotto il proprio assistito e di farlo desistere, a meno che non vi sia un espresso consenso scritto del cliente consapevole della imprudente scelta.

L’avvocato non deve incoraggiare il cliente ad intraprendere azioni legali al solo scopo di svolgere ulteriore attività a suo discapito, ma deve valutare attentamente la complessità della questione e sconsigliare le cd. “cause perse”.

Solo quando si tratta di problemi di particolare complessità la Cassazione esclude la responsabilità dell’avvocato (tranne per dolo o colpa grave, Cassazione sent. n. 2954/16). Proprio in considerazione dei rischi connessi all’esito infausto per le cause di particolare complessità la legge prevede l’obbligo per gli avvocati di avere una polizza assicurativa per responsabilità professionale.

La sentenza della Cassazione

Nel caso affrontato dalla Corte l’avvocato aveva incoraggiato fortemente il cliente a fare appello averso una sentenza di primo grado con la quale era risultato già soccombente.

In pratica la scelta era stata presa solo dall’avvocato che aveva insistito per la proposizione dell’appello nonostante l’impugnazione fosse infondata e quindi eccessivamente rischiosa. La corte ha condannato la parte alla rifusione delle spese di lite (oltre che per lite temeraria, art. 96 co. 3 c.p.c.) alla controparte nonché l’avvocato a risarcire tali spese al proprio cliente per un importo di 20.000 euro in virtù della sua colpa grave.

Per essereesente da tale responsabilità l’avvocato deve dimostrare che il cliente era consapevole della temerarietà dell’azione legale e ciononostante abbia voluto proporre appello. Ènecessario pertanto che l’avvocato si faccia sottoscrivere un’apposita liberatoria.

Si tratta del cd. abuso dello strumento processuale, ovvero dell’utilizzo del processo quale mezzo inidoneo ab origine al raggiungimento dello scopo prefisso: si tratta di un ricorso giudice fine a se stesso, che può far comodo solo all’avvocato e che non fa altro che intasare i canali della giustizia senza procurare alcun vantaggio al cittadino.

La Corte ha quindi condannato l’avvocato al risarcimento di 20.000 euro in favore dell’assistito (su istanza dei quest’ultimo).

Il codice civile all’art. 1176 co. 2 impone di osservare la regola di giusta diligenza nell’esecuzione dell’incarico conferito, trattandosi di una prestazione che richiede particolare cognizione e speciale qualifica del professionista.

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