Un venerdì sera come tanti, quello dello scorso 11 Novembre, per la solita comitiva di amici. Quindici, forse venti ragazzi, nessuno oltre i venticinque anni, e un appartamento della Roma bene, quartiere Balduina, a disposizione: si prospettava la serata perfetta. Vittorio Bos Andrei ha 22 anni, un’infanzia difficile, segnata dalla morte del padre, e un sogno in tasca: fare rap. Sul palco diventava Cranio Randagio, e la sua musica passava dal raccontare l’Italia di oggi, al raccontarsi in prima persona. Per inseguire quel sogno, aveva lasciato la Capitale per Milano, e in quella Roma bene tornava solo nei weekend, come aveva fatto quel maledetto venerdì.
Vittorio non è più tornato a Milano, perché dopo una notte confusa, su cui divergono le testimonianze di chi lo accompagnava, si è addormentato, senza più risvegliarsi. Le indagini proseguono e rivelano dettagli sempre più agghiaccianti, come il fatto che, prima di chiamare i soccorsi quando ormai era troppo tardi, gli amici abbiano pensato a ripulire l’appartamento, per cancellare le tracce dell’abuso di droga, si scoprirà poi. Quella sera c’era tanto alcol, marijuana, cocaina, forse metanfetamine, e per capire cosa abbia ucciso Vittorio, bisognerà aspettare l’esame tossicologico, mentre l’autopsia ha escluso la morte naturale.
Il dolore e il pudore del quartiere
Il quartiere si è chiuso nel silenzio.
Non c’è alcun degrado sociale verso cui puntare il dito. Questa è la Roma dei professionisti, della gente per bene, dei bravi ragazzi, che certe cose non le fanno. È la stessa Roma di Foffo, Prato e dell’omicidio Varani. Sono le stesse droghe dei ragazzi vestiti bene e col viso pulito, che per abusarne non hanno bisogno della solitudine e del degrado che soffia tra le vele di Scampia.
E allora perché drogarsi?
Lo abbiamo chiesto a Roberto, 32 anni, campano d’origine, ma che in quella Roma ha vissuto diec’anni, mentre studiava Medicina all’Università. Figlio di quella stessa borghesia che ora non parla, perché ha sempre fatto finta di non vedere. Suo padre, medico, lo voleva medico, e lui ha passato dieci anni a rincorrere il sogno di un altro, offuscato da ogni tipo di droga.
-Da cosa scappano i ‘bravi ragazzi’?
“A vent’anni scappavo dalla noia, dalla routine, cercavo lo sballo, appena riuscivo ad avere qualche soldo in più. Morivo dalla curiosità di provare sempre qualcosa di nuovo. Poi ho capito che era un modo per riuscire a sopportare le aspettative della mia famiglia, le speranze borghesi che schiacciano qualsiasi altro tipo di pensiero. Le droghe erano per me un rifugio sicuro, in cui perdere la concezione del tempo”.
-Che cosa hai provato?
“Tutto. Marijuana, cocaina, eroina, crack, MDMA, ecstasi, meth, ma non mi sono mai bucato.”
-Qual è stata la peggiore che tu abbia mai provato?
“La cobrette. Sono dei cristalli, ottenuti dallo scarto di tutte le altre droghe, che ha un effetto prima paralizzante e poi eccitante.
Va per la maggior tra i tossici, perché costa pochissimo ed ha effetti devastanti. Io so di essere stato fortunato, perché sono sempre riuscito a mantenere un minimo di controllo, ma ho visto amici impazzire per avere un’altra dose. Una volta eravamo in macchina, appena tornati da un ‘rifornimento’, durante il viaggio di ritorno avevamo finito già tutto. Quando siamo scesi dalla macchina, un amico ha iniziato a raccogliere tutto ciò che era rimasto sui tappetini, per fumare. Non riuscivamo a calmarlo, siamo dovuti tornare indietro per altra roba.”
-E’ difficile procurarsi queste sostanze?
“Dieci anni fa bisognava spostarsi in determinate zone della città, ma oggi è arrivata ovunque, anche nella più piccola provincia.
È diventato un mercato a 360°, non più limitato a ‘certe persone’, ma aperto a tutti. Ci sono dei bar dove basta entrare e chiedere un ‘kit’. Ti vendono una bottiglia d’acqua, una cannuccia e un pezzo di carta stagnola. L’occorrente per fumare crack.”
-Ti consideri un ‘bravo ragazzo’?
“No, ma non ho mai fatto del male a nessuno. Solo a me stesso.”