Il Governo Dolly, così soprannominato in onore della famosissima pecora clonata in Scozia una ventina di anni fa, si accinge a prendere possesso delle proprie funzioni: il giuramento di rito al Quirinale di fronte al capo dello Stato, il simbolico passaggio di consegne (e campanellino) tra Matteo Renzi e Paolo Gentiloni e l’esame agevolmente superato presso la Camera dei Deputati. Tutto procede secondo i piani. In attesa di incassare la fiducia anche da parte del Senato (meno scontata, ma in ogni caso più che possibile), il primo Governo-clone della storia della Repubblica italiana è quasi pronto per mettersi al lavoro.
E a giudicare dall’inedita verve che caratterizza il suo leader, appunto Gentiloni, il nuovo (si fa per dire) Esecutivo si mostra già bello pimpante. Vispo e polemicamente intraprendente. 'Tecnicamente” oramai pressoché legittimato (infatti, l’imminente responso in arrivo da Palazzo Madama sancirà la chiusura del cerchio), il premier si sente già in diritto di dispensare un’ironia e un sarcasmo che prima gli erano sconosciuti. Ma non c’è da preoccuparsi: è solo l’effetto della clonazione. Il pacifico, accomodante e sempre rasserenante Gentiloni di una volta… era un’altra persona.
Contraddizioni ironiche
Adesso, come ogni buon clone che si rispetti, Gentiloni deve fare il verso a Renzi. Ha l’obbligo, in quanto fotocopia, di riprodurre il suo stesso linguaggio, l’atteggiamento, la medesima capacità burlesca, frasi pungenti à gogò.
Il romano gentile e silenzioso si riscopre e indossa i panni del proverbiale toscanaccio dalla battuta sferzante e dalla satira ‘virile’. Siamo al cospetto dell’irrisione che si fa beffa. Va in scena l’arte della contraddizione rivoltata e ribaltata pro domo propria. Si recita il gioco dello scambio delle parti con una disinvoltura disarmante.
Anzi, si gioca con le parole, si orchestra un gioco di scambi di parole e significati talmente abile che, nel giro di un istante, all’orecchio dell’interlocutore ciò che è vero può apparire falso, ciò è giusto sembra sbagliato e viceversa, il bello diventa brutto e viceversa. Insomma, può andare bene tutto e il contrario di tutto: è il marasma della dialettica di una politica che ha raggiunto l’apice dell’auto-referenzialità.
Un esempio? Gentiloni ha affermato: “Se stasera sono qui, è perché l’abbiamo riconosciuta!”. Si riferiva alla sconfitta referendaria del 4 dicembre. Alla sconfitta, cioè, del suo partito, nonché del Governo di cui faceva parte. Come dire: “Abbiamo perso, quindi siamo tuttora qui!”.
Governo ventriloquo
Se non è sagace ironia non dire “Abbiamo perso dunque andiamo a casa”, bensì “Abbiamo perso, quindi ci ripresentiamo uguali”. Ovvero: “Mi hanno bocciato, ma io mi promuovo!”. Parossismo allo stato puro. Non solo. Parlando della sua squadra di governo, che ricalca quasi completamente quella dell’Esecutivo precedente, Gentiloni ha rivendicato i risultati ottenuti: la squadra ha rimesso in moto l’Italia.
Peccato che gli italiani, appunto, non abbiano accolto, bensì ricusato, questa presunta ‘rimessa in moto’. E poi ancora: “I paladini della legalità e della costituzionalità non si sono presentati nel momento estremo della fiducia”. Un chiarissimo messaggio per quell’opposizione oltranzista (Cinque Stelle e Lega) che ha disertato l’Aula in quanto non si sente di riconoscere un Governo rifiutato dai cittadini. L’assenza dei grillini e dei leghisti a Montecitorio (peraltro ininfluente) è un attacco alla democrazia, mentre il Governo ventriloquo del precedente è ‘legale’ e legittimo? Tecnicamente lo è ma, politicamente e sotto il profilo dell’opportunità, assai meno. E il non rispetto della volontà dei cittadini è una forma di violenza. Su una cosa però Gentiloni non sbaglia: “Il Parlamento non è un social network”. Vero: nei social, nei blog, in rete, c’è molta più democrazia!