La storia si ripete, ennesimo caso di doping nel mondo del Ciclismo: il personaggio in questione è Raimondas Rumsas jr, atleta lituano residente in Italia con la famiglia da diversi anni. Il giovane 23enne pare fosse positivo ad un ormone della crescita che gli costerà 4 anni di squalifica da tutte le competizioni. Curiosità non trascurabile riguarda la famiglia del corridore: il padre (tra l’altro omonimo del figlio) fu squalificato a sua volta per Doping nel 2003 ed arrestato due anni dopo per importazione di medicinali proibiti in Italia. Pure la madre, presunta complice del marito, fu fermata diversi anni prima alla dogana francese durante le corse del tour de France con dei farmaci vietati dall’antidoping.

Insomma la storia si ripete per davvero: stesso nome, stessa squalifica.

Sorvolando sulle motivazioni della famiglia Rumsas, ci concentriamo su cosa potrebbe spingere un atleta professionista nel fiore degli anni a rischiare la sua carriera per arrivare più in alto sempre più vicino al sole, consapevole però che come Icaro, più si vola alto e più è facile cadere.

Il demone della competizione

Il caso della famiglia Rumsas non è altro è una delle tante note dolenti del ciclismo, l’impiego di ormoni e sostanze illegali è sempre stato un nodo critico dello sport professionistico, basti pensare al caso Armstrong di qualche tempo fa, passato alla storia come la squalifica a vita più famosa della storia del ciclismo.

Tuttavia il perseverare nell’errore della famiglia lituana ci fa soffermare su un argomento che coinvolge tutti gli atleti professionisti: quanto sono disposto a rischiare per vincere? Una questione che fonda le sue radici nella volontà dell’essere umano fino a raggiungere il lato oscuro del senso della competizione, l’antisportività.

È noto che in diversi sport individuali come la corsa il ciclismo o il nuoto, l’esercizio e il talento sono fondamentali per il successo, ma soltanto uno tra i tanti vincerà, gli altri mangeranno la polvere. Non esiste niente di tanto frustrante come una sconfitta o un’aspettativa non raggiunta per un uomo o una donna che ha dedicato la propria vita a quello sport.

Ed è qui che il doping, come il diavolo tentatore colpisce i professionisti che non sono riusciti nel loro intento. Il mostro del doping nasce qui, dalla competizione.

I burn out

Nel mondo dello sport professionistico, gli atleti sono sottoposti ogni giorno ad un incredibile stress che si può manifestare in diversi modi: le aspettative del pubblico e delle persone care, l’avvicinarsi delle competizioni e la mancanza di fiducia nei propri mezzi. Queste tre componenti delineano quelli che sono i punti focali della psiche dell’atleta, importanti tanto quanto la preparazione fisica e tecnica ma non altrettanto curati ed allenati.

Si parla proprio di allenamento allo stress nel contesto atletico-professionale infatti per prevenire quelle crisi note come Burn out: noti anche nel contesto aziendale, i burn out sono fasi di crollo emotivo dovute al sovraccarico di stress. In un momento di debolezza come questo è facile trovare sollievo in soluzione facili come il doping per ritrovare fiducia in se stessi e tornare a soddisfare le aspettative dei mass media.