Il teatro non sempre si adatta a ciò che il mercato "impone". Fortunatamente, aggiungeranno alcuni. A volte il teatro non è solo di intrattenimento, a volte il teatro è teatro fedele a sé stesso e alle sue origini che lo volevano un luogo nel quale coltivare pensieri alti. Come ne “I Miserabili” di Victor Hugo, nell’adattamento di Luca Doninelli per la regia di Franco Però, in scenda dal 23 ottobre al Teatro Quirino di Roma fino al 4 novembre.

Il teatro dei valori universali

I panni di Jean Valjean li veste Franco Branciaroli e ad accompagnarlo c'è un eccellente cast d’interpreti tutti perfettamente intrisi dell'imponente allure del romanzo.

1500 pagine che appartengono alla storia della letteratura del genere umano inducono a riflettere sull'epoca che stiamo vivendo presentandosi alla platea in 90 pagine di copione senza edulcoranti, senza colpi di scena, né soubrette poco vestite: c'è spazio solo per la rappresentazione teatrale di uno dei romanzi che hanno segnato la storia.

L’idea nasce dal regista Franco Però che in un'intervista sottolinea: "Un’importante induzione verso questa scelta viene dal momento che stiamo vivendo nelle società occidentali, dove si assiste all’inesorabile ampliarsi della forbice fra i “molto ricchi” e i “molto poveri”, fra chi è inserito nella società e chi invece ne è ai margini. Apriamo ora lo sguardo al macrocosmo della società".

Bisogna ammettere che in tempi dove siamo più attratti dallo scintillo che dalla sostanza, una scelta del genere è ammirevole e va premiata entrando in quel teatro ad applaudire a chiunque abbia preso parte alla mise en scène. Abbiamo più bisogno che mai di fermarci a pensare al nostro apporto nella società e al nostro valore e abbiamo bisogno di chi con coraggio naviga controcorrente in mari poco esplorati.

Jean Valjean: uno strano santo

Lui è il protagonista assoluto ed è da lui che si dirama tutta l'epopea. Siamo in una Ville Lumière dell'800 piena di contraddizioni e di forti squilibri sociali. L'esperienza di Valjean è una storia di cristiano riscatto, di una fiamma di speranza accesa per caso da uno sconosciuto. Scontata la pena, accolto nel suo vagare a casa del vescovo Myriel, Valjean ruba tutta l’argenteria ma catturato dai gendarmi viene trascinato al cospetto del monsignore.

È in quest'attimo che all’ex detenuto numero 24601 cambia la rotta. Valjean dirà: "La liberazione non è la libertà; si esce dal carcere, ma non dalla condanna" e dalla condanna lo libera Myriel con una frase semplice: "Perché Jean Valjean non ha preso i candelabri?". Il vescovo Myriel mente dicendo ai gendarmi di aver donato lui il bottino all’ospite e anzi lo rimprovera di aver dimenticato il dono più prezioso, due candelabri d’argento.

Ecco l'attimo ancestrale che libera l'uomo e gli fa giocare la seconda partita della sua vita. Da qui Valjean si è lasciato perdonare come il figliol prodigo che torna a casa e chiede perdono al padre. Valjean è chiunque tra noi ecco perché la sua figura è intrisa di rispetto e di umanità.

Idea molto cara ad Hugo quella riguardante il concetto di umantità. Così farà espirimere Valjean a proposito: "Umanità significa identità: tutti gli uomini sono fatti della stessa argilla; nessuna differenza, almeno quaggiù, nella predestinazione; la medesima ombra prima, la medesima carne durante, la medesima cenere dopo. Ma l'ignoranza mescolata all'impasto umano lo rende nero incurabile penetrando nell'interno dell'uomo vi diventa il male".

La scenografia firmata da Domenico Franchi è semplice ma sofisticata allo stesso tempo, è da tre elementi che richiamano gli antichi periaktoi che si muoveranno ad ogni cambio di scena offrendo la possibilità di continui mutamenti. La scarsa illuminazione calda delle luci abbraccia il movimento studiato della scena in movimento che rimanda all'immagine di un libro da sfogliare e nel quale muoversi dando vita all'infinito romanzo di Victor Hugo così tragico, mutevole, basso e così intriso della storia di ognuno di noi.