Il ritorno di Spike Lee, quello vero e polemico (in senso buono, ci mancherebbe). Dopo averci regalato perle del cinema - quali La venticinquesima ora, con un superlativo Edward Norton, e Inside man - il cineasta americano torna a cavalcare l'onda del successo con un film che parla, e ironizza, su un tema attuale e scottante: il razzismo negli States.

Un film ironico ma riflessivo

Dai primissimi, magistrali, frames di BlackkKlansman (ossimoro che unisce due concetti che mai potrebbero essere più distanti, nero e KKK), in cui un inedito Alec Baldwin si diletta con un monologo razzista e disturbante, il film si palesa come una forte critica alle idee intolleranti e suprematiste di quegli anni (1972), strizzando però l'occhio al presente.

Sì, perché Lee non vuole compiere una retorica populista e anacronistica, ma attualizzare, con un sapiente utilizzo dell'ironia, il contesto in cui il Ku Klux Klan agiva, quarant'anni fa. Tra momenti di ironia, battute razziste così estreme da far sorridere, e passaggi più profondi, la pellicola conclude il suo cerchio perfetto nelle scene finali. Documentari veri, crudi, senza censura, e soprattutto attuali, riportano lo spettatore ai sentimenti che aveva lasciato da parte durante le due ore di film: rabbia, sgomento, incredulità. Ma com'è possibile tutto questo, oggi?

I discorsi in campagna elettorale di Donald Trump, messi a paragone con quelli di David Duke (ex capo supremo del KKK), fanno rabbrividire: il concetto di America first, non pare poi così lontano da quello di whites first.

Il grido d'aiuto del regista

La scena finale, poi, trasforma l'opera di Spike Lee in un qualcosa di più di una semplice denuncia. Silenzio, nessun suono, o musica, di sottofondo. Compare la Stars and stripes old glory (la bandiera a stelle e strisce americana) ma capovolta, a testa in giù. Gradualmente, svaniscono anche i colori, si trasforma in un frame in bianco e nero.

Nel linguaggio militare, la bandiera nazionale a testa in giù acquisisce un significato ben preciso: resa. Ecco che allora il film di Lee giunge ad una lettura ben precisa, andando a dare un senso più che mai compiuto soprattutto agli spezzoni finali. Il razzismo non è morto, gli Stati Uniti d'America vertono ancora - e più che mai - in un clima di fervore nazionalista e xenofobo, grazie soprattutto a chi dovrebbe guidare il paese, tra pace, sicurezza, ed armonia.

Il regista fa quindi ammutinamento verso quel generale - Trump - che sta portando il suo esercito alla disfatta. Gli Stati Uniti stanno decadendo in un alone di terrore (che spesso e volentieri fa rima con nazionalismo) e Spike Lee è magistrale nel mettere da parte il forte orgoglio nazionale che lo contraddistingue, per chiedere aiuto.

Una pellicola che non vuole solo essere un gran bel film - godibile dall'inizio alla fine, con prove attoriali notevoli e un intreccio ben riuscito e mai banale - ma anche e soprattutto una critica, o meglio, un grido d'aiuto rivolto allo spettatore e al mondo intero. Divisi non si va da nessuna parte: riponiamo le metaforiche armi dell'odio verso il diverso, che oggi, più che mai, non deve essercene bisogno.