Non accennano a placarsi i toni dello scontro mediatico, politico e giudiziario (causa le querele annunciate) innescato dalle parole pronunciate da Matteo Renzi durante la trasmissione Otto e Mezzo del 12 aprile scorso. Il leader in pectore del Pd, annunciando un’offensiva giudiziaria a suon di querele per il caso Consip, aveva definito “Falso Quotidiano” il giornale diretto da Marco Travaglio, a sua volta etichettato come uno che scappa dai processi. La risposta dell’allievo di Indro Montanelli non era tardata ad arrivare. Controquerela in arrivo e nomignolo di “bulletto” affibbiato al rottamatore di Rignano.

Oggi il Fatto, accusato appunto da Renzi di propagandare notizie false, reagisce pubblicando un elenco di tutte le post-verità, o Fake News come si usa dire, pronunciate negli ultimi anni dal capo Pd. Si va dalla mancata promessa di abbandonare la politica in caso di sconfitta nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, al lancio dell’hashtag #enricostaisereno subito prima della cacciata di Enrico Letta da Palazzo Chigi nel 2014. Ma anche il Jobs Act e i casi Mps e Banca Etruria.

Tutte le ‘balle’ di Renzi secondo il Fatto

In questi giorni non si fa che parlare di Moab, la ‘Madre di tutte le bombe’ che l’America di Trump ha sganciato sui covi dell’Isis tra le montagne dell’Afghanistan. Secondo il Fatto Quotidiano, invece, la ‘Madre di tutte le balle’ pronunciate da Matteo Renzi resta, senza ombra di dubbio, la frase “se perdo il referendum lascio la politica”, pronunciata a più riprese tra la fine del 2015 e l’ottobre 2016.

Come noto, nonostante il referendum stra-perso, Renzi abbandonò solo il governo, non certo la vita politica, e ora è pronto a riprendersi Palazzo Chigi ad ogni costo.

Altra fake news colossale fu quella pronunciata il 16 gennaio 2014. “Diamo un hashtag: #enricostaisereno. Vai avanti, fai le cose che devi fare, io mi fido di Letta”.

Naturalmente, meno di un mese dopo, Renzi ricevette la campanella, simbolo della presidenza del Consiglio, proprio dalle mani del non tanto sereno Letta. Altra frase celebre è “sogno un paese in cui conta cosa conosci e non chi conosci”. Proposito da ‘libro Cuore’ che si scontra con l’infornata di fedelissimi toscani e del Giglio Magico insediati sulle poltrone di governo e delle principali società controllate dallo Stato.

Negli annali resteranno gli attacchi ‘giustizialisti’ per chiedere le dimissioni di indagati come Filippo Penati, Josefa Idem, Nunzia De Girolamo, o quelle dei pregiudicati Silvio Berlusconi e Beppe Grillo. Salvo poi, una volta arrivato al potere, pronunciare senza vergogna la frase “non chiederò mai le dimissioni per un avviso di garanzia”. E, infatti, Luca Lotti, indagato nel caso Consip, è ancora al suo posto. Da segnarsi su un taccuino anche il giudizio, quantomeno improvvido, sulla legge elettorale Italicum che, invece di essere “copiata da mezza Europa”, è stata bocciata dalla Corte Costituzionale. Stesso destino toccato alla riforma della PA targata Marianna Madia che, invece di una “rivoluzione copernicana”, si è rivelata un flop incostituzionale.

Per non parlare, poi, delle lodi sperticate alla lettera-ricatto inviata dalla Bce al governo Berlusconi nel 2011, trasformatesi, pochi anni dopo, in una critica feroce contro le “letterine ridicole per chiedere assurde correzioni sul deficit”. Indimenticabile anche il giudizio dato sui conti Mps nel 2016: “Oggi la banca è risanata e investire è un affare”. Anche se la lista delle presunte balle renziane è ancora lunga, chiudiamo con l’articolo 18 che, nel 2012, non rappresentava un blocco per gli investimenti, mentre nel 2014, una volta eliminato dal suo governo con il Jobs Act, viene definito un “ostacolo” che “ora non lo è più”.