L'Alzheimer è una grave malattia neurodegenerativa i cui sintomi si manifestano in modo progressivo ma solo in una fase avanzata. Eppure la malattia potrebbe essere diagnosticata anche 10 anni prima, se venissero identificati dei biomarcatori specifici. È quello che, in un editoriale su Nature Medicine, hanno presentato i dottori H. Zetterberg e J. M. Schott. Una diagnosi precoce può aumentare le opportunità di intervento, come hanno spiegato Piero Angela e il neurofisiologo Lamberto Maffei in un incontro sull'Alzheimer, questi giorni a Roma.

Due team per due nuovi biomarcatori

Due team di ricercatori hanno pubblicato le loro ricerche sull'ultimo numero di Nature Medicine. La prima ricerca è stata condotta in Germania, primo autore Oliver Preische, mentre la seconda è statunitense, primo autore Daniel A. Nation.

La prima ricerca ha valutato la rottura della barriera emato-encefalica come biomarcatore precoce della disfunzione cognitiva umana. La beta-amiloide così come la proteina tau, hanno un’azione tossica sul sistema vascolare cerebrale. Studi su animali hanno dimostrato che queste due proteine alterano i vasi sanguigni cerebrali arrivando a generare una rottura della barriera ematoencefalica. Sebbene entrambe le disfunzioni, a livello vascolare e a livello della barriera, inizino già nelle prime fasi della malattia, finora non era possibile poterli individuare precocemente al fine di arrivare ad una diagnosi precoce.

I ricercatori americani si sono concentrati sui recettori-β del fattore di crescita derivato dalle piastrine, PDGFRβ (Platelet-derived growth factor receptor-β). Questi recettori sono presenti sui periciti capillari, delle cellule che circondano la muscolatura liscia dei capillari. L’espressione dei recettori PDGFRβ aumenta in condizioni di ipossia o di stimoli nocivi.

Ebbene, indipendentemente dai livelli di β-amiloide e tau, i due marcatori già identificati nei pazienti con Alzheimer, un aumento di PDGFRβ solubile nel liquido cerebrospinale è indice di un danno ai capillari cerebrali e della degradazione della barriera ematoencefalica. Questo è osservabile molti anni prima che la malattia venga diagnosticata.

La seconda ricerca si è concentrata sui livelli di NfL (catena leggera del neurofilamento) nel liquido cerebrospinale e nel siero, correlati tra loro. Nelle fasi precoci della malattia (fase pre-sintomatica), i livelli di NfL iniziano ad innalzarsi e questo è predittivo del tasso di assottigliamento corticale che si traduce in una riduzione delle capacità cognitive. Seguendo questi pazienti nel tempo, dopo qualche anno si manifestano tutti i sintomi dell'Alzheimer, confermati dalla risonanza magnetica e dalle placche di β-amiloide. NfL è quindi un utile biomarcatore rilevabile nel plasma, clinicamente sfruttabile per arrivare ad una diagnosi precoce di Alzheimer.

Demenza di Alzheimer

È la presenza di due proteine che caratterizzano l'Alzheimer, la β-amilode e la proteina tau.

La malattia è preceduta da una lunga fase di “pre-demenza”, definita spesso decadimento cognitivo lieve. Solo il 50% di questi pazienti in pochi anni evolverà nella condizione di demenza vera e propria, gli altri o resteranno in una condizione stabile o possono anche migliorare, fino ad una condizione normale.

Per questo, la scoperta di questi nuovi biomarcatori è molto importante perché potrà consentire un monitoraggio della malattia già in una fase molto precoce. Un aumento nel liquido cerebrospinale di PDGFRβ solubile o dei livelli plasmatici di NfL vanno proprio in questa direzione.

In Italia vive una popolazione tra le più vecchie del pianeta. Nel nostro Paese un milione di persone soffre di demenza e Alzheimer conclamata e altrettanti sono a rischio.

Intervenendo in tempo questa malattia si può rallentare o addirittura bloccare. In un incontro, promosso e organizzato questi giorni a Roma dalla Fondazione Igea Onlus e dall'associazione Diplomatia, con la partecipazione di Piero Angela e del neurofisiologo Lamberto Maffei, si è parlato di prevenzione e di diagnosi precoce dell'Alzheimer.

Maffei ha illustrato un protocollo non farmacologico “Train the Brain”, sperimentato all'Istituto di Neuroscienze del CNR, con dei risultati straordinari: l’80% dei pazienti trattati ha visto rallentare la patologia e migliorare le capacità mnemoniche.

Piero Angela ha invitato a considerare il nostro cervello al pari di altri organi, così come andiamo dall'oculista, dal cardiologo o dall'otorino, dopo i 50 anni, dovremmo andare dal neurologo per fare un test sul nostro stato cognitivo.

In Italia un malato di Alzheimer costa al Servizio Sanitario e alle famiglie circa 50mila euro l'anno. Considerato il milione di malati, il costo di questa malattia per il sistema Paese è stimabile complessivamente in oltre 50 miliardi l'anno.