''Quel naso triste come una salita, quegli occhi allegri da italiano in gita'', così lo canta Paolo Conte, perché Gino Bartali era davvero così, con quel naso ostinato, come il suo carattere, e con gli occhi sornioni, di chi non sai mai se sta scherzando o vuole attaccar briga. Professionista dal 1934 al 1954, con la Legnano aveva vinto tre Giri d'Italia, quattro Milano-Sanremo, tre Giri di Lombardia e due Tour de France.

I successi più importanti, però, li aveva conquistati fuori dai tour, nel più totale anonimato: in compagnia della fedele bicicletta, nascose più volte nel telaio i documenti falsi per l'espatrio di numerose famiglie ebree italiane durante i rastrellamenti nazifascisti.

Coppi, sei un acquaiolo!

Così urlava Ginettaccio al giovane Coppi durante una tappa alpina del Giro del 1940. Allora gregario della Legnano, Coppi era tentato dal fermarsi, i muscoli bruciati dalle spinte in salita, con vivo disappunto del più anziano Bartali, deciso a incoraggiare, da fiorentino collerico, le resistenze del ragazzo, perché nel Ciclismo, come nella vita, se non si vuol dare il massimo, si rimane acquaioli; si rimane gregari.

E l'acquaiolo ne fece di strada da allora, sempre incoraggiato dall'amico-nemico Bartali. Una rivalità, quella tra i due, destinata a riempire pagine di epica sportiva, alimentata dalle radicali differenze tra i due contendenti. "C'è sangue nelle vene di Gino, mentre in quelle di Fausto c'è benzina", scrisse in proposito Curzio Malaparte.

Tutta l'Italia era allora divisa in due, e volentieri aderiva, anche con qualche forzatura, al campione più vicino alla propria idea: metà nazione era per il cattolico Bartali, sanguigno divoratore di buon cibo, pilastro inamovibile della tradizione; metà per Coppi, scientifico, sempre a dieta e assai libertino.

L'attentato a Togliatti

Nel 1948, in una Italia ancora scossa dalla guerra e già alle prese con le lotte tra democristiani e comunisti, l'attentato di Antonio Pallante al segretario del PCI, Palmiro Togliatti, rischiava di scatenare una seconda guerra civile. Ansiosa di emozioni pulite, di gioia, di distensione, l'Italia del dopoguerra nutriva anche una vera devozione per gli eroi del ciclismo.

Tradizione vuole che sia stata la clamorosa vittoria al Tour de France di un Bartali già trentaquattrenne, per giunta accompagnato da una squadra di non eccelso ardore agonistico, a stemperare gli animi di quell'estate infuocata.

Il salvataggio degli ebrei

L'impresa più grande, e più bella, Bartali la compiette, però, all'oscuro di qualsiasi telecamera. Quando il rabbino di Firenze Nathan Cassuto prese accordi con l'arcivescovo Elia Angelo Dalla Costa per produrre documenti falsi per l'espatrio degli ebrei fiorentini, Bartali si offrì volontario più volte per trasportarli, nascosti all'interno del telaio della bici. La scusa, tanto elementare quanto credibile: da campione di ciclismo, necessitava di ore di allenamento, tante ore.

E così, nel 1943, Gino percorse 185 chilometri avanti e indietro, ogni giorno, a rischio di fucilazione. Alla fine la sua silenziosa staffetta aveva salvato quasi mille ebrei.

Non disse niente a nessuno, mai. Solo nel 2005, morto da cinque anni, il Presidente della Repubblica Ciampi, consegnò all'amatissima moglie di Bartali, Adriana, la medaglia d'oro al valor civile. Lui, Ginettaccio, non l'avrebbe mai chiesta, perché, come pare che abbia detto una volta: "Il bene si fa, ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca."