Lecco. Ore 6.30 di una domenica mattina. Una donna di origine albanese suona alla porta del vicino di casa, lui le apre constatando il suo stato confusionale. È sporca di sangue, dice poche parole che lasciano intuire sia accaduto qualcosa di sconvolgente.
Alcuni minuti prima l'uomo aveva udito delle grida provenire dall'appartamento della donna e aveva pensato si trattasse di un litigio familiare. Rendendosi conto che potrebbe essere accaduto qualcosa di molto più grave di un semplice diverbio va al telefono e inoltra una chiamata di soccorso.
Quando il 118 arriva sul luogo trova la donna seduta sugli scalini, le vengono prestate le prime cure e viene portata in ospedale.
In casa della donna, quando i carabinieri entrano per verificare cosa sia realmente accaduto, si trovano davanti a una scena che neppure il più riuscito dei film dell'orrore poteva mettere insieme. Sangue ovunque, corpi inanimati con ferite d'arma da taglio, le tre figlie della donna orribilmente massacrate.
Cosa sia accaduto di preciso non è chiaro, la fredda sensazione è quella che poche ore più tardi sarà trasformata in verità dalla confessione della donna albanese che, dopo un lungo ed estenuante interrogatorio, ha ammesso la propria responsabilità crollando emotivamente.
Un episodio sconvolgente, un fatto di cronaca nera che ci lascia perplessi con un'enorme serie di punti interrogativi. Come può una madre arrivare a commettere una così brutale azione nei confronti di ciò che sarebbe stato il suo naturale proseguimento? Può la disperazione attenuare la sua colpa?