Mahmood Amiry Moghaddam è un rappresentante dell'organizzazione non governativa Iran Human Rights, che combatte la pena di morte. In questi giorni sta chiedendo con insistenza ai governi europei, specialmente a quello svedese, di porre attenzione sul caso del ricercatore iraniano Ahmadreza Djalali, attualmente tenuto prigioniero nel carcere di Evin, nella città di Teheran.
Il medico manca dal 24 aprile 2016, e ora rischia l'impiccagione con l'accusa di spionaggio internazionale. I colleghi del ricercatore sono certi dell'innocenza di Djalali, il quale lavorava con l'obiettivo di rendere più efficienti i presidi ospedalieri dei territori poveri o maggiormente colpiti da eventi disastrosi.
Lo studioso si trovava a Teheran nel giorno in cui è scomparso, perché aveva ricevuto un invito ufficiale dall'Università iraniana. Infatti, per svolgere il suo lavoro, si spostava frequentemente anche nella sua terra d'origine, e collaborava indifferentemente con colleghi europei, israeliani o sauditi.
La storia
Ahmadreza Djalali ora ha 45 anni ed è residente a Oslo con la sua famiglia; ha collaborato con l'Università di Novara e col "Centro di ricerca interdipartimentale dell'Università del Piemonte Orientale", con il quale ha avviato una collaborazione finalizzata nel trovare soluzioni mediche adeguate in caso di disastri.
La moglie del ricercatore, Vida Mehrannia, nei mesi scorsi ha ricevuto delle minacce da parte delle autorità iraniane, che le hanno intimato di non dare alcuna informazione sulla vicenda legata al marito.
La donna, infatti, è sempre stata a conoscenza della situazione di pericolo nella quale versava (e versa ancora) il coniuge ma, a causa delle minacce ha preferito non parlare, temendo che la diffusione della notizia avrebbe potuto ulteriormente peggiorare il già fragile equilibrio esistente, facendo precipitare definitivamente gli eventi a sfavore del marito.
Dopo essere stato preso in consegna dalle autorità iraniane, Djalali, ha iniziato un'estenuante e tortuosa battaglia legale e, inoltre, è stato sottoposto a diversi trasferimenti da un settore all'altro del penitenziario di Evin. In seguito alla sentenza del dicembre scorso, secondo cui entro le prossime settimane il medico verrà giustiziato mediante impiccagione, la signora Djalali ha deciso di raccontare tutta la verità.
Subito dopo la lettura della sentenza, il medico ha iniziato uno sciopero della fame. L'appello lanciato da Moghaddam punta proprio a porre l'attenzione su questa drammatica vicenda, per evitare che venga condannato a morte un innocente. Ad oggi è possibile per tutti fare un piccolo gesto per Djalali, firmando una petizione su "change.org".