La Storia ci dice che il 27 gennaio 1945 per i Russi era un giorno come un altro, un giorno nell'ordinaria follia di quella guerra che durava da anni, un giorno nella corsa verso Berlino per battere gli Alleati che marciavano nel senso opposto.
Quel mattino erano in Polonia e arrivarono alle porte di uno dei tanti lager di cui i nazisti avevano costellato il loro Impero, non dovettero neanche combattere molto perché esso era già stato evacuato da (circa) una decina di giorni nella "marcia della morte" (per i prigionieri che ancora stavano in piedi) verso la Germania, una marcia ormai senza scopo, forse nella mente di qualche gerarca per nascondere una parte dell'orrore.
Come raccontano le cronache, i Russi ci arrivarono verso mezzogiorno del 27 gennaio 1945, incontrando una sparuta resistenza, solo qualche colpo di fucile. Mentre il Capitano Lebedev alzava la bandiera rossa, il cameraman Vorontsov accendeva la telecamera che doveva testimoniare cosa vedevano: i Russi credevano dopo 5 anni di guerra, di essere ormai pronti a qualunque cosa, ritenevano dopo aver visto la scritta in gotico "Arbeit macht frei" (Il lavoro rende liberi) di essere davanti ad un semplice campo di lavoro della cittadina polacca di Oswiecim, ma non sapevano di stare entrando nell'Inferno della più grande macchina di sterminio della Germania Nazista, il complesso di auschwitz-Birkenau-Monowitz, dove erano morte (la cifra esatta non sarà mai conosciuta) più di un milione di persone.
Cosa videro i Russi
Leggere le parole del generale russo della 100a Divisione di Fanteria del I° Fronte Ucraino che per primo entrò, leggere tutti i libri, i diari, i romanzi non prepara ai documentari che furono girati e che è importante vedere e rivedere per sapere che questo è stato: mucchi di cadaveri, meglio dire scheletri abbandonati a marcire, mentre migliaia di scheletri che ancora avevano un soffio di vita erano buttati a terra, lo sguardo spento e vitreo, oppure vagavano come zombie e non avevano più nemmeno la forza (e la volontà) di reggere un cucchiaio.
Erano i cosiddetti, secondo il gergo dei lager, Muselmanner, i Mussulmani, coloro che ormai era più morti che vivi, un nome di cui ancora oggi non si sa l'origine.
I fantasmi non si reggevano più in piedi e di fronte alle scodelle di minestre porte loro, erano capaci solo di immergerci le dita e succhiarle, altri con ancora un minimo di forza vitale, afferravano bramosi un pezzo di pane, alcuni riuscivano ad abbracciare e a sorridere.
Già dal 1944 da Berlino era arrivato l'ordine di cancellare le prove di ciò che era successo e stava ancora succedendo ad Auschwitz (come se fosse possibile occultare tutto quello che era stato): alcuni edifici, come il crematorio numero IV, erano già stati demoliti, le buche dove erano stati bruciati i corpi erano state ricoperte con erba e le ceneri recuperate e buttate nella vicina Vistola, mentre si cercava persino di portarsi via nella fuga la terra intrisa del sangue delle vittime. Molte attrezzature e addirittura i forni crematori furono smontati e portati verso la Germania mentre vennero bruciati i registri che testimoniavano il resoconto radiografico dell'orrore.
Circa 58.000 prigionieri ancora in grado di muoversi, furono costretti (naturalmente a piedi) alla marcia forzata verso la Germania e quasi tutti morirono di fatica, di fame, di freddo o semplicemente uccisi dai tedeschi, magari per una piccola esitazione
I vivi
Nel campo i Russi trovarono ancora in vita 7.000 persone, anche se dire "in vita", viste le loro condizioni, è un eufemismo: 100 bambini, come testimoniano le riprese, c'erano ancora, su uno degli spiazzi giacevano 48 corpi e altri 600 erano qua e là nel complesso, mentre l'orrore e l'evidenza veniva anche dai magazzini coi reperti raccolti e catalogati (ed ancora oggi in parte visibili): 1.185.345 abiti di vario tipo, 460 protesi, gambe o braccia artificiali, 7 (!) tonnellate di capelli, 43.525 scarpe, stivali da operai, scarpe da donna col tacco alto, scarpine di bambini e scarpette di lana per neonati.
I capelli (molti già pronti per partire) andavano ad una ditta della Baviera, la Alex Zink: 50 pfennig al chilo per imbottire abiti e anche cuscini.
Nulla doveva essere sprecato.
Legge n° 211- 20 Luglio 2000
Dopo varie discussioni sulla data da scegliere (per esempio qualcuno aveva proposto il 16 ottobre, a memoria di quanto successo col rastrellamento di Roma del 1943), si propone come Giorno della Memoria il 27 gennaio, in cui appunto i Russi arrivarono dentro Auscwithz e il vaso di Pandora liberò gli orrori che erano stati nascosti per tanti anni, anche se certo molto era trapelato.
La legge, negli articoli 1 e 2, precisa lo scopo della commemorazione: "ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini Ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita, hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati."
Si è a lungo detto che per giustizia storica morale e umana, il ricordo dovrebbe comprendere anche quelli non citati dalla legge perché lo sterminio non si fermò certo ai soli Ebrei: basta pensare agli zingari di varie parti d'Europa, ai Testimoni di Geova per il solo fatto di non voler vestire la divisa, agli omosessuali, ai malati di mente o malati gravi (i primi a subire lo sterminio nelle cliniche stesse dove si trovavano), a chi di qualsiasi parte fosse si opponeva alla macchina.
E per concludere, le parole di Mattarella di pochi giorni fa sono state molto dure, ma bisogna ricordare che nella Storia d'Europa il genocidio nazista non è stato l'unico esempio e soprattutto che ci sono casi striscianti ancora più vicini a noi, basti pensare a quanto è successo durante la guerra che seguì alla dissoluzione della Jugoslavia e nominare Srebeniza e siamo alla fine del '900, pochi anni fa.
L'odio, il piacere di sentirsi superiori e diversi e di considerare altri diversi e inferiori è sempre presente ed è il pericolo contro cui bisogna tenere alta la guardia.