É durante una delle prime giornate primaverili dell'anno che David Buckel, avvocato americano di sessant'anni, si è suicidato in uno dei parchi più frequentati di Brooklyn, a New York. Intorno alle sei del mattino, Buckel si è cosparso di benzina per poi darsi fuoco. I pompieri e la polizia non hanno potuto che constatare il decesso una volta arrivati sul luogo. Vicino ai resti carbonizzati l'avvocato avrebbe lasciato una nota per spiegare il suo gesto, definendo il proprio suicidio un atto di protesta.
Una lettera molto più lunga è stata spedita da Buckel a vari media americani, una sorta di manifesto dell'attivista engagé per i diritti LGBT e per l'ecologia e l'Ambiente. Profondamente scoraggiante, la lettera denuncia lo stato del pianeta, l'inquinamento e sopratutto esprime disagio di fronte all'apparente inutilità delle lotte ecologiste.
"La maggior parte degli esseri umani sul pianeta respira un'aria che costituisce un pericolo per l'inquinamento da energie fossili che contiene; a causa di ciò molti muoiono prematuramente. La mia morte precoce causata dal carburante fossile è un riflesso di quello che stiamo infliggendo a noi stessi''.
Un fallimento?
La vita di David Buckel è costellata da quelli che si possono definire successi. Alcuni esempi: nel 1993 ha ottenuto la condanna di uno sceriffo del Nebraska per negligenza in seguito all'abuso sessuale ed omicidio di un giovane transgender - vicenda che ha ispirato il famoso film Boy’s dont’ Cry. Nel 1995 è stato emesso grazie a lui il primo decreto di una corte federale americana che obbligava gli stabilimenti scolastici a impedire gli abusi su studenti LGTB.
Ha creato a Brooklyn l'Added Value Red Hook Community Farm, il più grande sito di biostabilizzazione americano, che funziona solo con energie rinnovabili. Per queste e altre vittorie, il giurista Steven Goldstein ha commentato l'atto scrivendo che la morte di Buckel non lo rispecchia affatto. Se non fosse stato colpito dalla depressione, continua Goldstein, l'avvocato avrebbe parteggiato per la vita piuttosto che per questo sacrificio.
Il marito di Buckel, Terry Kaelber, ha accusato come le principali cause del suicidio una forma di depressione di cui Buckel soffriva unita ad altri problemi di salute, e ha definito l'atto come "la sola cosa che una persona di sessant'anni può fare perché gli altri prestino attenzione''. Ma non è così facile tracciare una linea tra un momento di utilità della nostra vita e un altro momento nel quale il nostro agire smetterebbe di essere utile.
Sopratutto ne quadro di una lotta come quella ecologista, dove ogni nostra azione per quanto apparentemente insignificante ha invece un'impronta.
Più che una presa di coscienza dell'inutilità delle sue azioni, l'atto potrebbe dipendere dell'esasperazione causata dalle mancanze nell'accettazione delle proprie responsabilità da parte della comunità in cui Buckel era immerso.
Una questione di responsabilità
"Mi scuso perché lascio questo mondo presto, abbandonandovi davanti a grosse imprese da compiere. Ma avendo vissuto su questo pianeta, devo almeno provare a renderlo un posto migliore'' ha scritto Buckel a un suo collaboratore la mattina del suicidio. Sebbene il gesto sia discutibile - è indubbio che un punto di riferimento come Buckel fosse più utile vivo, piuttosto che come martire - lo stato d'animo in cui Buckel si è posto con questa frase potrebbe insegnarci molto di più di quanto non possa fare, purtroppo, il suo sacrificio.
Buckel percepiva il fatto di essere vivo e di aver vissuto sul pianeta, con tutto quello che comporta, come un elemento sufficiente a conferirgli una responsabilità verso l'ambiente in cui stava vivendo. Diventa più facile dunque comprendere il suo sconforto nel momento in cui poniamo di fronte a questo sentimento di responsabilità l'atteggiamento dell'amministrazione Trump nei confronti delle battaglie per l'ambiente, e il generale disinteresse da parte della società contemporanea. Alcuni baluardi della lotta ecologista esistono, ma come Buckel sono relativamente isolati e l'impressione è che siano gli unici a prendersi sulle spalle una responsabilità che sarebbe collettiva.
La necessità di una nuova morale
Questa non-accettazione della responsabilità potrebbe derivare da una morale umana fondamentalmente inadatta e non preparata ad affrontare i problemi a cui si trova di fronte - per esempio, quello del cambiamento climatico. La necessità di una nuova morale, che si basi appunto su una presa di coscienza di ciò di cui siamo responsabili in quanto unica specie razionale sul pianeta, era esattamente ciò di cui, secondo il filosofo Hans Jonas, avevamo bisogno già nel 1979, anno di pubblicazione della sua opera "Il principio di responsabilità". L'opera si concentra sui nuovi problemi etici causati da un'applicazione senza limiti della tecnologia in ogni ambito della nostra vita.
Jonas ha fondato sull'idea di responsabilità il nuovo imperativo categorico: "Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra".
I comportamenti di Buckel andavano in questa direzione - nelle sue battaglie in quanto avvocato ma anche nei gesti quotidiani, dei quali un banalissimo esempio è il fatto che camminasse un'ora ogni giorno per andare a lavoro. Ma non è tanto sui suoi gesti che bisogna concentrarsi, né sul suo suicidio, ma piuttosto su quello che viene alla luce considerando l'insieme delle cose, il fatto che Buckel fosse cosciente delle sue responsabilità in quanto essere umano vivo in questo determinato periodo storico.
Che potrebbe costituire una risposta alla domanda, ormai di moda, “cosa significa vivere in quanto essere umano oggi?''. Cosa significhi veramente costituisce un discorso lungo e complesso, ma a cosa dovrebbe significare può essere relativamente più facile: prendere coscienza delle delle nostre responsabilità e agire di conseguenza.