Dopo che la città di Douma ha subìto un attacco chimico (così si sospetta), nella notte del 7 aprile, le immagini di quella tragedia hanno iniziato a circolare sia in rete che sui giornali. Davanti a queste foto, che mostrano soprattutto bambini morenti, è lecito domandarsi: è giusto pubblicarle? È giusto “rubare” con uno scatto gli ultimi istanti della vita di una persona e diffonderlo? Beppe Severgnini del Corriere della Sera risponde a queste domande, dicendo che in alcuni casi non solo è giusto, ma è anche un dovere. Un dovere che il reporter che scatta la foto e il giornalista che la pubblica devono adempire, se vogliono scuotere l’opinione pubblica dal torpore.
A volte è vero che un’immagine vale più delle parole. Una foto non può nascondersi dietro scuse o dietro negazioni. Una foto mostra con brutale sincerità la realtà della guerra, senza risparmiare niente e nessuno.
L’immagine del bambino siriano
La foto è stata scattata da Mouneb Taim e mostra lo sguardo sofferente di un bambino che fatica a respirare a tal punto da dover essere aiutato con una mascherina di ossigeno. Del medico si vedono solo le mani. L’immagine mostra, così, gli effetti dell’attacco chimico a Douma, vicino Damasco. Infatti, il conto delle vittime non ha risparmiato né donne né bambini. Certo, tutti sanno che questi sono gli “effetti collaterali” della guerra, ma c’è differenza tra sapere e vedere direttamente.
Le fotografie di guerra, di fatto, non hanno alcuno scopo propagandistico, non cercano di giustificare il conflitto, ma mostrano cosa accade a quelle persone la cui casa, la cui città, la cui vita è devastata da bombardamenti e da altri orrori a cui non facciamo caso, perché lontani dalla nostra realtà. Per quanto sia tremendo da ammettere, la notizia di un bombardamento chimico non tocca più nel profondo l’opinione pubblica, che è assuefatta da news drammatiche come questa.
E dove le parole falliscono, vincono le immagini. La foto di Mouneb Taim non passa inosservata, non lascia nessuno indifferente. Non si può cambiare canale facilmente o sfogliare con noncuranza la pagina del giornale, davanti allo sguardo sofferente di quel bambino.
Il ruolo della fotografia nella sensibilizzazione
Beppe Severgnini oltre a parlare del dovere che deve adempiere un giornalista nel pubblicare fotografie di questo genere, affronta anche un tema spinoso: la speculazione.
Certo, i media ormai hanno la cattiva fama di speculare sulle disgrazie, ma non è questa la ragione che spinge a mostrare foto come quella del piccolo siriano, dice Beppe Severgnini. Dietro la pubblicazione di un’immagine come quella non c’è alcun desiderio di guadagno o di attenzione, ma solo una lunga scia di dolore. Soffre il bambino, soffre il fotografo, soffre il giornalista, soffre il lettore. Ma questo male è essenziale, secondo Beppe Severgnini. Questa sofferenza è necessaria, se si vuole porre fine alla guerra, perché risveglia l'opinione pubblica, la fa agitare, ribellare, le fa dire “adesso basta”. Fa della sensibilizzazione un’arma, uno strumento di persuasione. A tal proposito, esemplare è la foto di Nick Ut.
“The Terror of War” è un’immagine che non solo è passata alla storia, ma che l’ha anche segnata. Conosciuta anche come “Napalm Girl”, la foto mostra una bambina, Kim Phuc, che corre nuda sotto shock. Le bombe avevano polverizzato il suo abito e le avevano ustionato la pelle. Kim Phuc, dopo lunghi trattamenti ed interventi, è sopravvissuta e la sua foto è diventata un’icona. Un’immagine forte che ha scosso l’opinione pubblica americana e che si crede abbia contribuito a porre fine alla guerra del Vietnam. E pensare che avesse rischiato di non venire pubblicata a causa delle severe politiche sulla nudità. Ricorrere alla pubblicazione di queste immagini certamente non è facile, spiega Beppe Severgnini, perché bisogna scegliere ogni volta quanto mostrare, anzi, quanto è giusto mostrare. Alcuni potrebbero rimanere impressionati da certe foto, ma la guerra, alla fine, non tiene conto della sensibilità di nessuno.